La Masseria delle allodole – Antonia Arslan #antoniaarslan

Antonia Arslan si è fatta portavoce del “popolo perduto”, recando la testimonianza nei suoi romanzi del genocidio degli Armeni all’alba della Prima Guerra Mondiale.
Ne La Masseria delle allodole racconta le vicende della sua famiglia, dello zio Sempad Arslanian e della moglie Shushanig, rimasti in Anatolia, a differenza del nonno Yerwant trasferitosi a Venezia giovanissimo.

Un libro in lista da tanto tempo, mea culpa per non averlo letto prima.

Immaginate una famiglia numerosa e benestante, con i suoi conflitti ma felice. Una famiglia accogliente dove ci sono tanti bambini, dove c’è allegria, ci sono mille sogni e desideri. Una famiglia, semplicemente.
Da un giorno all’altro quella famiglia verrà distrutta: la bella casa depredata, tutti gli uomini uccisi, le donne e i bambini costretti a lasciare i propri averi e ad incamminarsi in un lungo viaggio verso la morte. Come loro altre centinaia di migliaia di persone. Un milione, forse di più. Perché l’obiettivo finale è la pianificata e sistematica eliminazione di un popolo.

Siamo in Anatolia, nel 1915. La famiglia, vera e reale, è quella dell’autrice che in questo libro ricostruisce il genocidio degli Armeni a opera dei Turchi. Una pagina di storia ancora aperta e controversa, sofferta. Attuale in modo quasi insopportabile perché le immagini di aggressione, di odio, di annientamento di popolo “diverso” rimandano all’Olocausto degli Ebrei, alle guerre etniche in Africa, alla questione mediorientale….. A quanti altri conflitti ancora?

Il libro ha la forma del romanzo con uno stile di scrittura che sembra quello di altri tempi, un intreccio di garbata raffinatezza femminile orientaleggiate che ci fa conoscere alcune figure indimenticabili, soprattutto femminili. Sono le donne quelle lasciate in vita e destinate a una lunga marcia di sofferenza, sottoposte a ogni sorta di violenza e pronte a subire ogni umiliazione con eroica dignità. Perché lo scopo è uno solo: la difesa dei figli, la salvaguardia della loro vita, la ricerca disperata e quasi sempre vana di dare loro una possibilità di sopravvivenza.
Ecco allora Shushanig, la Madre, colei che alla morte del marito diventa il riferimento dell’intera famiglia e delle persone che le gravitano intorno. Azniv, bella e corteggiata rosa di maggio, dolce colomba d’Armenia pronta al sacrificio estremo perché i bambini possano mangiare, pronta ad immolarsi perché le sorelline possano vivere. Ismene la greca, la lamentatrice funebre, zingara quando serve, piena di risorse e fedelissima. La piccola Henriette, così timida, macchiata a vita dal sangue di suo padre ucciso di fronte a lei.

Il libro ha uno stile particolare, commovente nella sua semplicità. Consigliato, consigliatissimo. Vale anche come un ripasso di storia.

Anna Massimino

 

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La masseria delle allodole – Antonia Arslan #antoniaarslan #recensione

Leggere il mondo: Armenia

“C’è un momento nella vita di ogni donna armena, in cui la responsabilità della famiglia cade sulle sue spalle. Noi moriremo, per evitare questo peso alle nostre perle, alle nostre rose di maggio: e infatti moriamo.”

Questo è il tipo di libro per cui la valenza storica di quello che narra travalica i difetti di esecuzione; e tanto è più importante l’argomento, il genocidio del popolo armeno messo in atto dai turchi nel 1915, quanto irrisorio sembra il riportare i difetti nella narrazione. Probabilmente non ha molto senso valutare questo libro nella sua qualità letteraria, qualsiasi lettore appena dotato di un poco di empatia si lascerà travolgere dalla tragedia, e lascerà cadere la forma in secondo piano, e penso sia giusto così, dato che non è un romanzo che nasce con velleità di saggio storico ma solo come cronaca famigliare.

Antonia Arslan discende direttamente da una delle casate sterminate nelle stragi; nei primi anni del Novecento suo nonno Yerwant emigrò tredicenne per studiare in Italia dalla cittadina dell’Anatolia dove viveva il resto della sua numerosa famiglia, il padre con la nuova moglie e sei figli, il fratello minore nuovo capofamiglia e le sorelle nubili, e i bambini e i nipotini tutti. Yerwant si laurea a Venezia e poi si ferma in Italia, a Padova, dove sposa una nobildonna triestina dalla quale avrà due figli, uno dei quali è il padre dell’autrice. Il fratello Sempad rimane al villaggio natale dove la sua famiglia è ricca, rispettata e onorevole, e non ci sono (apparenti) problemi tra gli armeni cristiani e i turchi musulmani. L’autrice ha una penna felice nel descrivere usi e costumi di questo mondo ovattato e irripetibile, la cucina con i grandi pani ovali ricoperti di semi di sesamo e papavero croccanti, lo yogurt fatto in casa e i dolcetti di miele e noci, gli scialli ornati di fili di seta e oro delle ragazze e il vezzo di mettere ogni mattina un geranio fresco dietro l’orecchio nella spessa treccia nera.

Poi, scoppia la guerra nei Balcani, e un anno dopo, una sera di maggio del 1915, arriva l’ordine: tutti gli uomini armeni nel villaggio, vengono arrestati. Nessuno si preoccupa eccessivamente, anche se gli armeni già in passato sono stati perseguitati dai connazionali turchi. Ed è questo che li condanna. Confidano di vivere adesso in una nuova e pacifica era di convivenza e di progresso, non potevano letteralmente concepire che i loro stessi concittadini, spesso ospiti nelle loro stesse case, li avrebbero non solo traditi, ma barbaramente assassinati.

Eppure. La strage comincia; ove vi è l’opportunità, tutti i maschi delle famiglie vengono uccisi quella notte stessa, senza processi, sentenze, deportazioni, per eliminare la minaccia fisica maggiore. La mattina rimangono da gestire solo le donne, i vecchi e i bambini, i più deboli della società: vengono informate che i maschi sono in prigione altrove, trascinate fuori dalle case e, in centinaia, costrette a incamminarsi attraverso l’aspro territorio della steppa della Mesopotamia e dei monti curdi, una marcia interminabile, di orrori indicibili, fino ad Aleppo in Siria dove, se qualcuno arriverà vivo, verrà portato nel deserto e ucciso lì.  Questo è il racconto inumano di violenze, saccheggi e stupri da parte dei curdi e degli stessi soldati turchi, di bambini e vecchi morti e dimenticati lungo la strada senza sepoltura, di famiglie intere sparite nel nulla così.

“E’ il giorno più funesto per un paese quello in cui, per sentirsi unito, sente il bisogno di eliminare una parte dei suoi cittadini, inermi.”

La casata dell’autrice non scompare interamente: in quell’orrore immane due giovani zie nubili si occupano con ogni mezzo di salvare almeno i bambini, l’unica eredità rimasta alla loro famiglia, lasciando a loro l’ultimo boccone di pane, prostituendosi alle guardie turche in cambio di una razione in più, proteggendoli a scapito della propria incolumità e salute, e riusciranno eroicamente a mantenerli in vita fino ad affidarli ad alcuni amici, determinati a soccorrerli nonostante il governo turco avesse proibito per legge qualsiasi aiuto ai deportati.

Una saga raccontata quasi con pudore di fronte alla terribile fine di quasi tutti i personaggi, come se la vergogna fosse dei morti e non dei perpetratori dell’odio e della barbarie.
E’ un romanzo corale con personaggi che avrebbero meritato una scrittura migliore, lo dico senza retorica; eppure anche così, con qualche difetto, rimangono con noi, Sempad con il suo codice morale altissimo, perchè era un farmacista, quindi quasi un medico, e comunque un letterato, una colonna della sua piccola comunità agraria dove aiutava i malati, custodiva i veleni, leggeva i telegrammi e i giornali che arrivavano nel suo negozio come recapito. Azniv la bella, che amava ballare con il suo ragazzo armeno e aveva anche un proibitissimo spasimante turco, e Veron la zia cicciotella che metteva i risparmi in una scatola di guanti per andare un giorno a vivere da uno zio a Boston, e diventare americana.

Una strage, quella armena, dimenticata, sommersa prima dagli orrori della guerra mondiale e poi dalle stragi naziste, ma non per questo meno importante, di cui si sa poco generalmente, forse perchè la Storia la scrivono i vincitori, in fondo. Ma, comunque, il passato lo possono trascrivere anche i vinti, le loro parole arrivare fino a noi, e rimanere.

Consiglio questo libro se non amate troppo leggere resoconti di avvenimenti del passato in libri impegnativi ma volete comunque informarvi su questa terribile pagina di storia; è un romanzo che non si sofferma su aspetti storico politici o interpretazioni filosofiche, rimane nel campo della cronaca famigliare e proprio per questo trasmette un grande senso di umanità.

Lorenza Inquisition