Leggere il mondo: Armenia
“C’è un momento nella vita di ogni donna armena, in cui la responsabilità della famiglia cade sulle sue spalle. Noi moriremo, per evitare questo peso alle nostre perle, alle nostre rose di maggio: e infatti moriamo.”
Questo è il tipo di libro per cui la valenza storica di quello che narra travalica i difetti di esecuzione; e tanto è più importante l’argomento, il genocidio del popolo armeno messo in atto dai turchi nel 1915, quanto irrisorio sembra il riportare i difetti nella narrazione. Probabilmente non ha molto senso valutare questo libro nella sua qualità letteraria, qualsiasi lettore appena dotato di un poco di empatia si lascerà travolgere dalla tragedia, e lascerà cadere la forma in secondo piano, e penso sia giusto così, dato che non è un romanzo che nasce con velleità di saggio storico ma solo come cronaca famigliare.
Antonia Arslan discende direttamente da una delle casate sterminate nelle stragi; nei primi anni del Novecento suo nonno Yerwant emigrò tredicenne per studiare in Italia dalla cittadina dell’Anatolia dove viveva il resto della sua numerosa famiglia, il padre con la nuova moglie e sei figli, il fratello minore nuovo capofamiglia e le sorelle nubili, e i bambini e i nipotini tutti. Yerwant si laurea a Venezia e poi si ferma in Italia, a Padova, dove sposa una nobildonna triestina dalla quale avrà due figli, uno dei quali è il padre dell’autrice. Il fratello Sempad rimane al villaggio natale dove la sua famiglia è ricca, rispettata e onorevole, e non ci sono (apparenti) problemi tra gli armeni cristiani e i turchi musulmani. L’autrice ha una penna felice nel descrivere usi e costumi di questo mondo ovattato e irripetibile, la cucina con i grandi pani ovali ricoperti di semi di sesamo e papavero croccanti, lo yogurt fatto in casa e i dolcetti di miele e noci, gli scialli ornati di fili di seta e oro delle ragazze e il vezzo di mettere ogni mattina un geranio fresco dietro l’orecchio nella spessa treccia nera.
Poi, scoppia la guerra nei Balcani, e un anno dopo, una sera di maggio del 1915, arriva l’ordine: tutti gli uomini armeni nel villaggio, vengono arrestati. Nessuno si preoccupa eccessivamente, anche se gli armeni già in passato sono stati perseguitati dai connazionali turchi. Ed è questo che li condanna. Confidano di vivere adesso in una nuova e pacifica era di convivenza e di progresso, non potevano letteralmente concepire che i loro stessi concittadini, spesso ospiti nelle loro stesse case, li avrebbero non solo traditi, ma barbaramente assassinati.
Eppure. La strage comincia; ove vi è l’opportunità, tutti i maschi delle famiglie vengono uccisi quella notte stessa, senza processi, sentenze, deportazioni, per eliminare la minaccia fisica maggiore. La mattina rimangono da gestire solo le donne, i vecchi e i bambini, i più deboli della società: vengono informate che i maschi sono in prigione altrove, trascinate fuori dalle case e, in centinaia, costrette a incamminarsi attraverso l’aspro territorio della steppa della Mesopotamia e dei monti curdi, una marcia interminabile, di orrori indicibili, fino ad Aleppo in Siria dove, se qualcuno arriverà vivo, verrà portato nel deserto e ucciso lì. Questo è il racconto inumano di violenze, saccheggi e stupri da parte dei curdi e degli stessi soldati turchi, di bambini e vecchi morti e dimenticati lungo la strada senza sepoltura, di famiglie intere sparite nel nulla così.
“E’ il giorno più funesto per un paese quello in cui, per sentirsi unito, sente il bisogno di eliminare una parte dei suoi cittadini, inermi.”
La casata dell’autrice non scompare interamente: in quell’orrore immane due giovani zie nubili si occupano con ogni mezzo di salvare almeno i bambini, l’unica eredità rimasta alla loro famiglia, lasciando a loro l’ultimo boccone di pane, prostituendosi alle guardie turche in cambio di una razione in più, proteggendoli a scapito della propria incolumità e salute, e riusciranno eroicamente a mantenerli in vita fino ad affidarli ad alcuni amici, determinati a soccorrerli nonostante il governo turco avesse proibito per legge qualsiasi aiuto ai deportati.
Una saga raccontata quasi con pudore di fronte alla terribile fine di quasi tutti i personaggi, come se la vergogna fosse dei morti e non dei perpetratori dell’odio e della barbarie.
E’ un romanzo corale con personaggi che avrebbero meritato una scrittura migliore, lo dico senza retorica; eppure anche così, con qualche difetto, rimangono con noi, Sempad con il suo codice morale altissimo, perchè era un farmacista, quindi quasi un medico, e comunque un letterato, una colonna della sua piccola comunità agraria dove aiutava i malati, custodiva i veleni, leggeva i telegrammi e i giornali che arrivavano nel suo negozio come recapito. Azniv la bella, che amava ballare con il suo ragazzo armeno e aveva anche un proibitissimo spasimante turco, e Veron la zia cicciotella che metteva i risparmi in una scatola di guanti per andare un giorno a vivere da uno zio a Boston, e diventare americana.
Una strage, quella armena, dimenticata, sommersa prima dagli orrori della guerra mondiale e poi dalle stragi naziste, ma non per questo meno importante, di cui si sa poco generalmente, forse perchè la Storia la scrivono i vincitori, in fondo. Ma, comunque, il passato lo possono trascrivere anche i vinti, le loro parole arrivare fino a noi, e rimanere.
Consiglio questo libro se non amate troppo leggere resoconti di avvenimenti del passato in libri impegnativi ma volete comunque informarvi su questa terribile pagina di storia; è un romanzo che non si sofferma su aspetti storico politici o interpretazioni filosofiche, rimane nel campo della cronaca famigliare e proprio per questo trasmette un grande senso di umanità.
Lorenza Inquisition
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