Divorare il cielo – Paolo Giordano #PaoloGiordano @barbarafacciott

Divorare il cielo -Paolo Giordano

Editore: Einaudi
Collana: Supercoralli

La prima volta che Teresa li vede stanno facendo il bagno in piscina, nudi, di nascosto. Lei li spia dalla finestra. Le sembrano liberi e selvaggi. Sono tre intrusi, dice suo padre. O tre ragazzi e basta, proprio come lei. Bern. Tommaso. Nicola. E Teresa che li segue, li studia, li aspetta. Teresa che si innamora di Bern. In lui c’è un’inquietudine che lei non conosce, la nostalgia per un’idea assoluta in cui credere: la religione, la natura, un figlio. Sono uno strano gruppo di randagi, fratelli non di sangue, ciascuno con un padre manchevole, carichi di nostalgia per quello che non hanno mai avuto. Il corpo li guida e li stravolge: la passione, la fatica, le strade tortuose e semplici del desiderio. Il corpo è il veicolo fragile e forte della loro violenta aspirazione al cielo. E la campagna pugliese è il teatro di questa storia che attraversa vent’anni, quattro vite, un amore. Coltivare quella terra rossa, curare gli ulivi, sgusciare montagne di mandorle, un anno dopo l’altro, fino a quando Teresa rimarrà la sola a farlo. Perché il giro delle stagioni è un potente ciclo esistenziale, e la masseria il centro esatto del mondo.

Non paga delle innumerevoli sfighe de La solitudine dei numeri primi, mi sono voluta flagellare con la lettura di questo capolavoro a lungo preparato.
Premetto che non mi fa impazzire la scrittura di Giordano, se non quando tratta di mete turistiche (pregevoli le sue descrizioni dei paesi nordici in Traveller), non da meno la storia di cui si tratta in questo romanzo è piena di mirabolanti eventi, troppa carne al fuoco, sintetizzerei. La trama acchiappa (almeno all’inizio), è succulenta ma poi, come una grigliata, dove cominci col filetto di manzo e termini con la pancetta di maiale, verso la fine stufa, anzi stonfa. Alla fine non vedi l’ora che crepino tutti, almeno finiscono le boiate.

Ma l’incipit è meraviglioso, sognante: tre giovani si gettano di notte nudi nella piscina di una villa in Puglia. Dalle finestre, la giovane Teresa li osserva rapita dai loro corpi e dai loro giochi. Farà di tutto per conoscerli meglio e li seguirà fino alla loro masseria, che sarà poi il teatro degli eventi principali.

“Ormai ero abituata a trovare Torino più inospitale di come l’avevo lasciata, i viali troppo ampi, il cielo bianco e opprimente come un tendone di plastica. Un giorno Cesare aveva detto: Alla fine tutto ciò che l’uomo ha costruito sarà ridotto a uno strato di polvere di meno di un centimetro. Siamo così insignificanti. E’ soltanto il pensiero di Dio a renderci degni. Fra i palazzi del centro le sue parole mi tornavano in mente e tutto mi appariva precario, fasullo.”

Il romanzo tratta la storia di questi tre amici, praticamente fratelli, che vivono in un luogo pieno di sole e vento, una piccola comunità di ragazzi in affido. Tra questi spicca da subito Bern, colui che divora la vita, e che proprio per questa sua fame riesce a inanellare una serie di cazzate senza fine, partendo sempre da princìpi giusti e sacrosanti, per far finire tutto in schifìo, dalla passione per le donne che incontra, all’amore per la terra di Puglia, dal desiderio di paternità, alla
fuga in un luogo incontaminato… tutto.
Sullo sfondo, la voce narrante, la bella Teresa, ammaliata e ammalata d’amore per Bern, subirà tutti i cambiamenti di rotta, si adeguerà e vivrà all’ombra del suo amore. Il suo agire è aspettare e ricordare. Subirà di tutto e si sacrificherà fino in fondo per il suo Bern. Un personaggio davvero amabile.
In tutto il romanzo si ammassano storie assurde: una specie di famiglia-setta religiosa, che crede in Dio e nella reincarnazione, legge e impara interi passi biblici , seppellisce anfibi e insetti e cerca di educare questi figli con sacrosante buone intenzioni ma tutto sfocerà in tragedia; una pseudo comunità hippie che pratica l’agricoltura autarchica e che durerà 4 stagioni, giusto il tempo che le coppie che la compongono riescano a riprodursi… e poi ciaone, ognuno a casina sua; manifestazioni e presìdi per salvare gli uliveti dall’abbattimento colpevole, risse e ammazzatine, insomma una gran confusione e vani tentativi di creare luoghi e amori durevoli, fallendo più che miseramente, tragicamente.
Al fondo, prima che tutto diventi marcescente, il desiderio bruciante di una vita vera, le vite dei protagonisti si sviluppano tra i disagi, le tensioni, le proteste, le ispirazioni religiose, culturali ed ecologiste.
Gran bella copertina, gran bel titolo, lettura vivida, per certi versi molto coinvolgente e interessante, grande e bella apparecchiata ma non è tutto oro quel che luccica. E lo sappiamo bene.

“C’è sempre molto da conoscere della vita di qualcun altro. Non si finisce mai. E a volte sarebbe meglio non iniziare affatto.”.

Barbara Facciotto

Patria – Fernando Aramburu #Aramburu #patria #PaesiBaschi

Autore: Fernando Aramburu
Titolo: Patria
Traduzione: Bruno Arpaia
Editore: Guanda
Anno: 2017


Bittori, Miren, Il Txato, Joxian, Nerea, Xabier, Arantxa, Joxe Mari, Gorka: ho trascorso con loro quattro giorni e mi mancano tantissimo.
Sono i protagonisti di “Patria”, uno dei romanzi dell’anno anche grazie al meritato Premio Strega europeo. Un libro intenso che, attraverso le storie dei componenti di due famiglie, ci spinge a riflettere su importanti interrogativi: fin dove è etico, più che lecito, spingersi per perseguire un ideale politico? Chi sono le vittime di un conflitto sociale, di una guerra civile?
Sono domande che sarà inevitabile porsi, proseguendo nella lettura e riflettendo insieme ai personaggi, le cui storie catturano tutte senza esclusione.
Aramburu scrive in maniera molto particolare, con un uso personale del linguaggio che rompe alcuni schemi tradizionali dello scrivere, ma, dopo poche pagine, una volta abituatisi, il romanzo scorre fin troppo velocemente. Vorrei, infatti, non averlo finito o che ne esistessero non so quanti seguiti, per sapere com’è proseguita la vita dei protagonisti o addirittura cosa fanno, tutti, in questo preciso momento.

Euskal Herria è una parola intraducibile

In lingua basca vuol dire insieme il luogo e il popolo basco, il legame che non si può scindere tra la terra e il popolo che vi abita. Patria, dunque, è al tempo stesso aita e ama, ovvero papà e mamma, è appartenenza assoluta, come la famiglia, ma è anche tragedia, maledizione. Sembrava un residuo del passato, invece la patria è la protagonista della nostra epoca, fatta di Stati senza territorio, di territori senza Stato. Alla patria basca Fernando Aramburu ha dedicato il suo romanzo, un caso letterario in Spagna nel 2016, pubblicato in Italia da Guanda e tradotto da Bruno Arpaia, è ambientato negli anni del terrorismo separatista basco dell’Eta che ha provocato 829 morti tra il 1968 e il 2011. Oggi è la Catalogna a rivendicare la sua identità e indipendenza nel cuore dell’Europa che reclama l’appartenenza a una cultura comune, ma spesso rischia di parlare a uomini e donne che non condividono né radici, né futuro. Per questo occorre riflettere sul passato di una remota zona dell’Europa.” M.L. Bianchi

Dal punto di vista mio personale, poi, leggere “Patria” è stato tornare nell’amata San Sebastiàn: ritrovare i vicoli della Città Vecchia, la baia della Concha, la isla di Santa Chiara… Ricordi per me davvero importanti.
Ho ripensato molto ai miei giorni a Donostia, giorni vissuti in un periodo in cui l’ETA era viva e presente, in uno dei momenti di più intensa attività, e ai discorsi fatti con amici “euskaldun”, al mio sentirmi in qualche modo vicina alle idee “rosse” degli indipendentisti, pur se contraria alla lotta armata.
Questo romanzo mi ha fatto ripensare e rivalutare molte delle mie idee in merito, perché pone l’accento su aspetti che non avevo considerato prima e su cui non avevo mai riflettuto. Mi ha fatto ritornare in luoghi amati e ricordare giorni felici. Mi ha fatto amare questi baschi “di carta” e le loro storie come ho amato quelli reali.
– se esiste ancora, l’anno venturo vorrei tornare a L’Uraitz! –

Loretta Briscione

DESCRIZIONE

Due famiglie legate a doppio filo, quelle di Joxian e del Txato, cresciuti entrambi nello stesso paesino alle porte di San Sebastián, vicini di casa, inseparabili nelle serate all’osteria e nelle domeniche in bicicletta. E anche le loro mogli, Miren e Bittori, erano legate da una solida amicizia, così come i loro figli, compagni di giochi e di studi tra gli anni Settanta e Ottanta. Ma poi un evento tragico ha scavato un cratere nelle loro vite, spezzate per sempre in un prima e un dopo: il Txato, con la sua impresa di trasporti, è stato preso di mira dall’ETA, e dopo una serie di messaggi intimidatori a cui ha testardamente rifiutato di piegarsi, è caduto vittima di un attentato… Bittori se n’è andata, non riuscendo più a vivere nel posto in cui le hanno ammazzato il marito, il posto in cui la sua presenza non è più gradita, perché le vittime danno fastidio. Anche a quelli che un tempo si proclamavano amici. Anche a quei vicini di casa che sono forse i genitori, il fratello, la sorella di un assassino. Passano gli anni, ma Bittori non rinuncia a pretendere la verità e a farsi chiedere perdono, a cercare la via verso una riconciliazione necessaria non solo per lei, ma per tutte le persone coinvolte.
Con la forza della letteratura, Fernando Aramburu ha saputo raccontare una comunità lacerata dal fanatismo, e allo stesso tempo scrivere una storia di gente comune, di affetti, di amicizie, di sentimenti feriti: un romanzo da accostare ai grandi modelli narrativi che hanno fatto dell’universo famiglia il fulcro morale, il centro vitale della loro trama.