Don DeLillo – Underworld

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Parla la tua lingua, l’americano, e c’è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza. È un giorno di scuola, naturalmente, ma lui non c’è proprio, in classe. Preferisce star qui, invece, all’ombra di questa specie di vecchia carcassa arrugginita, e non si può dargli torto – questa metropoli di acciaio, cemento e vernice scrostata, di erba tosata ed enormi pacchetti di Chesterfield di sghimbescio sui tabelloni segnapunti, con un paio di sigarette che sbucano da ciascuno. Sono i desideri su vasta scala a fare la storia. Lui è solo un ragazzo con una passione precisa, ma fa parte di una folla che si sta radunando, anonime migliaia scese da autobus e treni, gente che in strette colonne attraversa marciando il ponte girevole sul fiume, e sebbene non siano una migrazione o una rivoluzione, un vasto scossone dell’anima, si portano dietro il calore pulsante della grande città e i loro piccoli sogni e delusioni, quell’invisibile nonsoché che incombe sul giorno – uomini in cappello di feltro e marinai in franchigia, il ruzzolio distratto dei loro pensieri, mentre vanno alla partita.
[Don DeLillo, Underworld, traduzione di Delfina Vezzoli, Einaudi, Torino, 1999]

Le Twin Towers in costruzione, la guerra fredda e la sua fine, l’omicidio di JFK, Edgar J. Hoover, gli esperimenti nucleari americani e sovietici, la crisi dei missili a cuba letta attraverso i racconti degli spettacoli di Lenny Bruce, i rifuiti accumulati dalla società dei consumi per eccellenza, e l’apparente redenzione della stessa società, pacificata e rasserenata nelle attività di riciclaggio. Il tutto riflesso nelle mille schegge in cui viene frantumato mezzo secolo di storia americana, rimesse assieme in modo apparentemente casuale. Storie che si intrecciano e si accavallano, avanti e indietro negli ultimi 50 anni del secolo scorso, seguendo i passaggi di mano di una pallina da baseball.
Due considerazioni mie:
1. Leggere questo libro è un po’ come guardare le immagini dipinte sulla vetrata di una cattedrale medievale, ma guardarli a terra, in frantumi, dopo un terremoto. Ogni frammento coloratissimo, brillante e lucente di una bellezza ipnotica che non ti permette di staccare gli occhi da quella confusione acuminata, alla ricerca di due bordi che possano coincidere.

2. Leggere questo libro e pensare che è stato scritto quattro o cinque anni prima dell’Undici Settembre fa un po’ impressione. Non perché venga fatto alcun accenno a quello che sarebbe diventato il mondo dopo, anzi (il libro finisce con la parola “Pace”, pensate un po’) ma perché, a leggerlo con gli occhi che abbiamo adesso, viene da pensare che, se quelle era il nostro passato, probabilmente quello che c’è adesso era poi l’unico futuro possible.

Luca Bacchetti

Tra me e il mondo – Ta-Nehisi Coates

Tra me e il mondo è una lettera che Ta-Nehisi Coates scrive al figlio Samori nel giorno del suo quindicesimo compleanno. Coates racconta la storia della sua infanzia nella parte sbagliata di Baltimora, della paura delle strade e delle gang, della scuola, della violenza, della polizia. Vincere questa paura, la paura di perdere il proprio corpo, diventerà lo scopo della sua vita. Per la prima volta la ricostruzione della storia americana riparte da zero; e riparte proprio da Ground Zero – dove ben prima del crollo delle torri gemelle c’era la sede del mercato degli schiavi della città di New York – per arrivare alle continue uccisioni ingiustificate di neri da parte della polizia, una violenza che diventa in questo racconto la storia universale del razzismo. Questo è un libro da cui nessuno uscirà indenne.

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Ho letto questo libro su consiglio di un collega. Non sapevo niente di Coates, che ho scoperto essere un rinomato giornalista nero americano, e niente del tema di cui tratta perchè mi è abbastanza alieno, molto poco di tutto il resto che lo corolla. È un saggio/lettera al figlio, Samori, nel suo quindicesimo compleanno. Il tema, in breve: il razzismo. Il tema non in breve: la ripetuta e costante cultura della discriminazione che in America continua nonostante la facciata di “non razzismo”.
È difficile da spiegare, ma è un libro toccante, duro, in cui l’autore racconta la sua infazia a Baltimora e tutta la sua evoluzione sempre tormentato dalle situazioni di paura e di discriminazione che viveva nonostante la segregazione sia finita da tempo, sulla carta. Racconta la paura di perdere il proprio corpo, di non avere potere su di esso perchè fin da bambino sai che chiunque può portartelo via, dal giorno in cui a 7 anni vide un ragazzino bianco puntargli una pistola in faccia per farsi figo, ed è impressionante la lista di crimini impuniti commessi dalla polizia su persone di colore. Racconta delle famiglie della sua epoca, che erano severissime coi figli e li picchiavano perchè “se non lo faccio io ci penserà la polizia”, diceva suo padre. La parola che più ricorre è corpo, e lo stra-potere che hanno “quelli che si credono bianchi” sul corpo nero.
Non sono mai stata in America, ho sentito da più voci che corre una sorta di paura laggiù nelle persone che in Europa è meno sentita, non prendo tutto per oro colato e quindi mi chiedo ancora come sia possibile che in America qualcuno possa morire per essersi rifiutato di abbassare lo stereo, come è successo a un adolescente di colore qualche anno fa, una delle tante morti inconcepibili. Può sembrare che Coates faccia del razzismo al contrario, tanto è duro a volte, ma alla fine si capisce che non è così, quello che chiede al figlio è di comprendere quelli che si credono bianchi, che vivono nel Sogno americano e di aiutarli a svegliarsi, questo è il compito che affida alla nuova generazione. Ne consiglio davvero la lettura, è veloce e lo stile è splendido, ma come scrive la quarta di copertina “nessuno ne uscirà indenne”.

“Non esistono razzisti in america, o almeno, quelli che hanno bisogno di essere bianchi non ne conoscono personalmente nemmeno uno. AL tempo dei linciaggi di massa era così difficile risalire ai singoli esecutori di quelle morti che spesso la stampa le dichiarava avvenute ‘per mano di ignoti’. Nel 1957, i residenti bianchi di Levittown, in Pennsylvania, lottarono per il diritto di preservare il regime di segregazione nella loro città. ‘In qualità di cittadini onesti, devoti e rispettosi della legge’ scriveva il comitato ‘riteniamo di non peccare di pregiudizio o discriminazione nel nostro desiderio di mantenere chiusa la nostra comunità’. Era il tentivo di commettere un atto vergognoso senza però incorrere in alcuna sanzione e te lo porto come esempio per farti capire che non è mai esistita un’età dell’oro in cui i malvagi facevano il loro mestiere sbandierandolo come tale.”

“Forse c’è stato, in qualche momento della storia, un grande potere la cui affermazione è stata esente dallo sfruttamento violento di altri corpi umani. Se c’è stato, io non l’ho ancora trovato. Ma la banalità della violenza non può scusare l’America, perché l’America non fa proclama di alcuna banalità. L’America si crede eccezionale, la più grande e nobile delle nazioni mai esistita, un campione solitario che si erge tra la bianca città della democrazia e i terroristi, i despoti, i barbari e gli altri nemici della civiltà. Non si può sostenere di essere supereroi e poi chiedere venia per i propri errori umani.”

Mi piacerebbe linkare qualche canzone di un rapper di quelli che cita Coates, come fa Carlo, ma non ne conosco. Rimedierò.

Selena Magni