Una moglie a Parigi (The Paris wife) – Paula McLain #Hemingway #recensione

Una moglie a Parigi è un libro uscito nel 2011, che racconta la storia del primo matrimonio di Ernest Hemingway, il quale si sposò giovanissimo, appena ventunenne (erano altri tempi, dopo due anni di guerra sul fronte italiano non lo si poteva certo definire immaturo) con una ragazza di St. Louis un poco più anziana di lui, la ventottenne Hadley Richardson. Dopo appena qualche visita e un po’ di corrispondenza, i due, molto innamorati, decisero di sposarsi d’impulso, e di trasferirsi in Europa. Approdarono a Parigi nel 1921, gli anni del Quartiere Latino e della Lost Generation, dei caffè letterari con Gertrude Stein, James Joyce, Ezra Pound, Pablo Picasso, Man Ray e Francis Scott Fitzgerald. Hemingway imparava a scrivere seriamente, virando dal giornalismo alla prosa pura, discuteva di letteratura e poesia con gli altri artisti, Hadley sempre al suo fianco ma un poco in disparte, poichè lei non era propriamente “artista” ma solo moglie, di un artista; furono anni di amore, bozze e riscritture, povertà, risate e bevute selvagge, libri e dipinti e letteratura e poesia. Sono gli anni parigini, quelli della formazione di un mito, mirabilmente descritti direttamente (Festa mobile) e indirettamente (Fiesta) da Hemingway stesso. Sono anni di sogno, e come tutti ahimè sappiamo, prima o poi ci si deve svegliare, e nella vita il disagio è sempre intermittente con la felicità, come diceva Leopardi, suppergiù. E quindi cinque anni e un figlio dopo, Hemingway intreccia una relazione con un’amica molto più giovane di Hadley, una maschietta molto carina che scrive per Vogue. Hadley chiederà il divorzio al ritorno dalla trasferta a Pamplona descritta in Fiesta, e si risposerà dopo qualche tempo per mai più riapparire nella vita del Mito, che convolerà a nozze quattro volte in tutto. Parigi è cara, ma è anche passata, per sempre.

Paula McLain, l’autrice di Una moglie a Parigi, decide di scrivere una biografia romanzata di Hadley Richardson, e della sua storia con lo scrittore; dedica due anni allo studio di loro biografie, legge le loro lettere e i romanzi di Hemingway, e produce un libro che schizza in vette alla classifiche del New York Times per quasi un anno. E’ un libro pensato bene, ma purtroppo realizzato male, e scritto peggio. L’avevo in lista da un po’ di tempo, perchè idealmente avrebbe dovuto concludere il mio periodo parigino con Hemingway, iniziato due mesi fa con Midnight in Paris di Woody Allen e passato attraverso Fiesta e Festa mobile; ero curiosa di leggere qualcosa che integrasse quelle storie che già conoscevo con il punto di vista di un’altra persona, meno incentrata sul proprio talento artistico. Una persona normale che amava i libri e l’arte, ma che non ne era consumata al punto da dimenticare la propria vita. Oltre a queste premesse che mi parevano meritevoli assai, anche la copertina scelta è accattivante: una signora elegantissima in un vestito da giorno bon ton, seduta a un caffè in una postura che trasuda confidenza, raffinatezza, mondanità parigina. Ed è interessante perchè tutti questi presupposti, la copertina con la signora fashion, la vera storia di Hadley e Hemingway, i racconti francesi di quegli anni, non c’entrano praticamente nulla con il contenuto di Una moglie a Parigi, che per me è stato uno dei libri peggiori dell’anno, finora. Il primo problema, è che quegli anni sono già stati raccontati da Hemingway, e non è pensabile che ci sia un autore che potrà mai descriverli meglio; quindi l’approccio della moglie come osservatrice esterna, come spalla nel racconto, poteva senz’altro funzionare, se la McLain fosse riuscita a caratterizzarla in modo vivo, vibrante, intelligente nel suo piccolo mondo privato, con le sue osservazioni personali. Hemingway stesso, d’altronde, ha sempre storicamente parlato della prima moglie come una cassa di risonanza di grande acume per le sue considerazioni, di come la sua ironia, il suo discernimento, il suo interesse fossero stati vitali per lo sviluppo delle proprie idee e del proprio talento. Ma purtroppo a causa di una scrittura piatta e di descrizioni poco riuscite, Hadley qui rimane una specie di ameba fumosa di cui non si capisce bene la personalità, nè il pensiero, nè tantomeno si intravede la grande ironia. Per essere onesti, il libro inizia con grande vitalità: il momento dell’innamoramento, la decisione folle di sposarsi in qualche mese, il desiderio di correre come pazzi incontro alla vita rinnegando la tranquillità della propria esistenza medioborghese in America trasferendosi a Parigi: che decadentismo! che deliziosa pazzia! che bello essere giovani e innamorati! Questo, è davvero un buon momento nel romanzo, ben descritto, coinvolgente. Ma dopo queste prime pagine, e siamo circa al trenta per cento della storia, tutto diventa piatto, inconsistente, sciapo. E’ il racconto noioso di una serie di incontri con le grandi personalità della Lost Generation e di discussioni artistiche che nella realtà saranno stati probabilmente epici, o per lo meno davvero interessanti, ma alla McLain manca il talento di trascinare il lettore nella storia; ed è così intenta a mostrare di aver fatto le ricerche del caso, che alla fine sembra che abbia preso pezzi di Wikipedia o di famose biografie di Hemingway per estrapolarne qualche aneddoto e aggiungerci un paio di dialoghi. Non c’è profondità psicologica, manca l’acutezza di riflessione e di caratterizzazione necessarie per non dico competere ma almeno destreggiarsi camminando abilmente a fianco di Festa mobile. Insomma, riesce a rendere noioso un romanzo ambientato a Parigi nei ruggenti anni Venti della bohème artistica americana, anzi si supera, riesce addirittura a rendere spenti due personaggi come Zelda e Scott Fitzgerald, un tracollo che non pensavo fosse alla portata di nessuno.

Tutta la seconda parte è pure peggio del peggio, per me, perchè Hadley, suo malgrado, diventa la vera protagonista con le sue inani riflessioni sul matrimonio e sui rapporti amorosi, laddove fino ad allora, essendosi la trama concentrata sui momenti letterari, più o meno lasciava parlare Hemingway. Ma il favoloso mondo artistico dei ribelli espatriati e i loro party alcolici fino a notte fonda non sono molto adatti a una primipara e al suo neonato, ma soprattutto il loro mondo di valori a volte distorti non trova più senso in una ragazza che deve pensare prima di tutto alla sua responsabilità di madre, visto che il padre vaga cercando il proprio talento letterario. Anche questo, da di fuori, poteva essere un approccio interessante: la sfera domestica di qualità familiari da contrapporsi alle infedeltà e rapporti promiscui vari del bel mondo artistico. Poteva, ma purtroppo non è. Fino a che la storia di Hadley ed Ernest scorre unita, la McLain è noiosa ma si può basare sul percorso già tracciato da Hemingway; nel momento in cui deve far parlare solo Hadley, perchè il rapporto si incrina e la relazione collassa, tutto si riduce a una serie di riflessioni trite e frasi da Harmony sul matrimonio, l’ammòre, la vita. Fallisce anche nel veicolare un senso di lealtà e di empatia nei suoi confronti, povera moglie che per anni si è sobbarcata il lavaggio di calzini e le mutande sporche del grande Mito mentre lui cercava la propria strada nella letteratura, per essere messa da parte nel momento in cui appare all’orizzonte una ragazza più giovane, più carina e senza chili di troppo dopo la gravidanza; l’atteggiamento di Hadley risulta così piagnone, le sue parole così tonte, le sue ansietà così sciocche che non la si compatisce, si desidera solo darle uno scossone e gridarle MOLLALO!

Mi spiace perchè non penso che la vera Hadley fosse proprio (solo) così; e sarebbe stato interessante vederla meglio, poter godere di quella personalità calorosa e intelligenza ridente che Hemingway ha dichiarato di aver amato come quasi nulla nella sua vita. E d’altronde onestamente non si capirebbe come un uomo con la personalità del Mito avrebbe potuto innamorarsi e rimanere sposato per anni a una donna così insulsa, poco stimolante e demotivata come quella descritta qui.

Non mi spiego bene il successo editoriale americano; forse qualsiasi cosa abbia a che fare con Hemingway, da loro ancora impazza. E poi c’è Parigi, e anche lì, le americane, si sa. Ed è il classico romanzo che ti dà un senso di leggere cose e vedere gente e dire robe di arte anche senza aver mai letto quasi nulla dei protagonisti (Ah ecco che entra nel salotto di Gertrude Stein! Oh, adesso incontrano James Joyce!) che ti fa sentire un poco intellettuale di tuo. Non so. Ho scorso qualche recensione di gente che gli assegnava le quattro o le cinque stelle, e molti non avevano letto quasi nulla di Hemingway, o si ripromettevano di leggerne “qualcosa” al più presto. Sarà quello. E da parte mia sicuramente c’è il fatto di aver letto da poco Fiesta e Festa mobile, quindi partivo da un punto altissimo di storie e non è sempre facile scendere ad altri livelli senza traumi. Ma in tutto, non mi pare un gran libro. Tre stelle striminzitissime.

Lorenza Inquisition

Uomini senza donne – Haruki Murakami

“Un giorno all’improvviso diventi uno dei tanti uomini che non hanno una donna. Quel giorno viene di colpo a farti visita senza che tu ne abbia il minimo presentimento, senza il minimo preavviso, senza annunciarsi bussando o schiarendosi la gola. Svolti l’angolo, e ti accorgi che ormai sei arrivato lì. Ma non puoi più tornare indietro. Una volta girato l’angolo, quello diventa il tuo solo, unico mondo. E quel mondo lo chiami «uomini senza donne». Sì, con un plurale di gelo infinito”.

muraki

Uomini senza donne è l’ultimo libro tradotto in Italia di Haruki Murakami, sette storie, sette uomini la cui vita viene fotografata da un preciso istante in poi, il momento in cui il “femminile” esce di scena, e loro rimangono, appunto, uomini senza donna. I motivi di questa assenza sono più o meno misteriosi e drammatici, e gli uomini protagonisti non sono sempre necessariamente vittime. Ne emerge un racconto corale di solitudini e ricordi, di uomini che per un periodo – lungo o breve – hanno vissuto l’illusione della vicinanza, della comunione, e una in genere pacata nostalgia per quello che non è stato.

Le storie presenti hanno diversi gradi di profondità, surrealismo e malinconia. Come sempre succede nelle raccolte di racconti, qualcuno è più vicino all’autore come lo conosciamo nei romanzi, e qualche storia pare invece scritta da un’altra persona. Le tematiche e lo stile rimangono per me comunque molto coerenti con quello che ho letto finora di Murakami, una scrittura pulita e piacevole, a volte declinata in uno stile favolistico dove non succede quasi mai niente ma sembra che succeda sempre qualcosa di fondamentale, tra una passeggiata e un gatto, un amplesso e un disco jazz, un sogno e un giro in macchina, una citazione dei Beatles e una lista di libri da leggere.

In questi racconti troviamo l’attore vedovo che vuole diventare amico di un amante della moglie defunta; un giovanissimo innamorato che nella sua inadeguatezza spera che la sua ragazza, con la quale fa coppia fin dalle medie, si metta con suo amico, onde evitare di doverla cedere a sconosciuti; il chirurgo plastico, dongiovanni incallito, che si innamora per la prima volta in tarda età con conseguenza drammatiche; una Shahrazad che fa visita a un amante recluso e gli racconta frammenti di storie,  proprio come ne “Le mille e una notte”, lasciandolo ogni volta in sospeso a desiderare più di ogni altra cosa il suo ritorno (“Perché le donne offrivano un tempo speciale che annullava la realtà, pur restandovi immerse”); un uomo che scopre il tradimento della moglie, ma non riesce ad esprimere il proprio dolore e finisce con l’accumulare un vuoto interiore abissale. Perchè è giusto provare sì a dimenticare, ma non è abbastanza. “Non doveva solo dimenticare, doveva anche perdonare”. E nemmeno perdonare è abbastanza: bisogna avere rispetto per se stessi, e dunque saper ascoltare il proprio cuore, se -metaforicamente – si vuol evitare che i serpenti lo assedino. Bisogna avere il coraggio di ammettere: “Sì, sono stato ferito, e molto profondamente”.

In uno dei racconti più riusciti per me, Murakami rovescia la prospettiva della Metamorfosi di Kafka: non un uomo trasformato in scarafaggio, ma uno scarafaggio che si sveglia trasformato in Gregor Samsa, scoprendo subito quella molla potente della condizione umana che si chiama desiderio. L’oggetto del suo desiderio è una donna con un evidente difetto fisico, nelle strade di Praga ci sono militari stranieri che arrestano la gente. E non è un caso forse che l’unico spiraglio di relazione possibile del libro ci giunga grazie a un passaggio di fisicità ma soprattutto di personalità: il solo modo per riacquistare umanità (o imparare a viverla) sarà la relazione amorosa. La vicinanza dei diversi, la comunione al di là delle apparenze.

Murakami a me piace tanto come scrittore, ma penso che sia un autore che -più di altri- non può piacere a tutti: o ti lasci andare alla sua narrazione, o resisti; o ti affascinano i suoi mondi metà sogno metà realtà, o te ne vuoi andare per non tornare mai più. Questi racconti non fanno eccezione: c’è il registro magico-fantastico, anche se non è dominante, troviamo sia la storia più lineare sia quella dove chiudi e ti chiedi se tutto sia accaduto o  sia stato solo immaginato. Ci sono la contemplazione dell’illogicità della vita, il mondo onirico e la riflessione sulla solitudine dell’uomo davanti alle grandi scelte, e una galleria di personaggi in fondo comuni ma anche particolari e profondi nel tratteggio.

Se non avete mai letto nulla di questo autore e vi incuriosisce, per me potete partire da qui: se vi piace, nei romanzi troverete tutto quello che c’è in questo libro ampliato e approfondito. Se non vi piace, è comunque un libro maneggevole sia come temi che lunghezza, e vi sarete fatti un’idea serena di uno scrittore molto famoso.

Lorenza Inquisition