La gloria – Vladimir Nabokov #vladimirnabokov #lagloria

Traduzione di Franca Pece
Biblioteca Adelphi

“Sulla parete luminosa sopra lo stretto lettino era appeso l’acquerello di un fitto bosco con un sentiero serpeggiante che si perdeva nelle sue profondità. Ora in uno dei libri inglesi che la madre gli leggeva, c’era la storia di un dipinto proprio come quello con il sentiero tra gli alberi, e il bambino, una bella notte, così com’era, in camicia, andò dal letto sin dentro il quadro, avventurandosi sul viottolo che si perdeva nelle profondità del bosco. Quando adolescente ripensava al passato, si chiedeva se non fosse davvero saltato dal letto dentro il quadro, e se quello non fosse stato l’inizio del viaggio, colmo di gioia e di angoscia, che era diventata la sua vita.”

Libro scelto in modo frivolo per i colori della copertina e per il titolo, tra gli scaffali della biblioteca.

Martin è un giovane che sogna, un carattere ardito, un uomo che ha guadagnato la mia simpatia da subito. Vive l’infanzia con la madre in Crimea e poi, esule dalla rivoluzione bolscevica, si trasferirà in Svizzera, a Cambridge e a Berlino.
È un giovane baldanzoso, che ama le sfide, e fino all’ultimo è alla ricerca della felicità. Non si ferma davanti a nulla, affrontando la paura e la fatica.
L’eroe de “la gloria”, tra gli espatriati russi, non è necessariamente interessato alla politica, la sua realizzazione è il tema del suo destino. Questa realizzazione è permeata, a volte, da una struggente nostalgia. La gloria è la parola russa podvig che, alla lettera, si traduce in “prodezza”. È la gloria di una magnifica avventura , di una conquista disinteressata. Non vado oltre, altrimenti è spoiler; il senso della vita, forse non è glorioso, nè diventare adulti, ma sentire la luce della vita che ci esplode dentro.

Questo libro ha passi magnifici. Mi ci sono proprio affezionata.

Gli piaceva ballare con una bionda sconosciuta, gli piaceva la conversazione vacua e casta attraverso la quale si presta ascolto da vicino a quel fenomeno vago e ammaliante che si verifica dentro di noi e dentro di lei, che durerà ancora un paio di battute musicali e poi, in mancanza di una conclusione, svanirà per sempre e finirà del tutto dimenticato. Ma fintanto che il legame fra i corpi permane, cominciando a prendere forma i contorni di una potenziale relazione amorosa, e l’abbozzo schematico comprende già tutto: l’improvviso silenzio fra due persone in una stanza illuminata fiocamente; l’uomo che con dita tremanti appoggia con cautela sul bordo di un posacenere la sigaretta appena accesa ma d’intralcio; gli occhi della donna che si chiudono lentamente come nella scena di un film; l’oscurità estatica, in cui vi è un punto luminoso, e una scintillante limousine che corre spedita nella notte piovosa e, a un tratto, una spianata bianca e l’increspatura abbacinante del mare

“ Sulla sinistra, nella lontananza misteriosa delle tenebre, scintillavano le luci adamantine di Jalta. E quando Martin si girò, vide poco lontano il nido fiammeggiante e irrequieto del fuoco, e attorno le sagome delle persone, e una mano che aggiungeva al falò un ramo. I grilli continuavano a stridere, e di quando in quando giungeva una dolce folata di ginepro che bruciava; e sopra la scura steppa subalpina, sopra il mare di seta, il cielo immenso, che inghiottiva tutto e che le stelle sfumavamo di grigio tortora, dava le vertigini, e d’un tratto Martin provò di nuovo la sensazione che aveva già conosciuto in più occasioni da bambino: un acuirsi insopportabile di tutti i sensi, un impulso magico e perentorio, la presenza di qualcosa per la quale soltanto valeva la pena vivere”

Barbara Facciotto

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Bambini nel tempo – Ian McEwan #IanMcEwan #recensione #childintime

Bambini nel tempo (nel titolo originale ce n’è uno solo, in verità, Child in time) è il terzo romanzo di Ian McEwan, scritto nel 1987, dal quale la BBC ha tratto un film con protagonista Benedict Cumberbatch (sempre sia lodato). E’ un racconto di lutto, di smarrimento, di tempo perduto che, come molti romanzi di McEwan, si articola attorno a un unico evento catalizzatore: il protagonista, Stephen Lewis, è un uomo che ha tutto. E’ un ricco scrittore di libri per bambini, ha successo, una moglie bella e intelligente, e una bambina di tre anni, deliziosa, unica, amatissima. E nel giro di un momento, Stephen non avrà più nulla: la bambina scompare mentre sono a fare la spesa al supermercato, un attimo di distrazione, nulla di più: ma è sufficiente. La figlia è persa, rapita, probabilmente morta. Il tempo passa, la bambina non ritorna, Stephen e la moglie si lasciano, ognuno naufrago nel proprio infinito dolore. L’assenza della figlia è ormai una presenza onnipresente, che tortura all’infinito nel ricordo i poveri genitori, incapaci di uscire dal circolo vizioso di rimorsi, dolore, disperazione e rabbia.

Il libro apre su questa vicenda, l’incubo di ogni adulto che abbia un bambino intorno, e si assesta poi nel racconto di quello che accade ai protagonisti all’incirca due anni dopo; la storia si snoda in un’Inghilterra distopica in cui il governo istituisce una commissione per l’istruzione che regolamenti l’educazione dei bambini, che si incoraggia a essere repressiva e autoritaria, e dove gli accattoni devono avere una licenza ufficiale per legge (il romanzo è stato scritto in epoca post-thatcheriana, e l’effetto del clima severo di quegli anni di ferro si vede), un Paese con un distacco amaro tra chi governa e il popolo, un abisso che a nessuno dei vari politici presenti nella storia pare interessi colmare.

Il tempo, oltre al lutto, è il grande tema di questo libro: il suo valore, il modo in cui si decide viverlo, le strane direzioni che prende quando è passato e diventa futuro, la diversa percezione che ne hanno adulti e bambini. Il tempo, spiega un’amica a Stephen, è elastico, capriccioso, relativo, parallelo: ci sono momenti in cui sembra che acceleri, altri in cui rallenta, o vada del tutto in corto circuito; momenti in cui tu ti stai divertendo e vorresti rimanere in quell’attimo per sempre, mentre altre persone intorno a te vorrebbero solo potersene andare. Un treno che lascia Londra verso la periferia della campagna viaggia dal passato verso il presente, in senso architettonico ma anche metaforico; i genitori di Stephen che hanno vissuto tutta la loro vita in basi aeree Nato, una volta in pensione condensano tutto il loro passato in una serie di souvenirs esposti in un’unica stanza.

Stephen stesso vive stancamente in un presente continuo e infinito, che alterna a visite mentali nel passato; il suo tempo non è mai nel futuro, dove non è presente la figlia, che è uscita dal momento temporale: non è più, per lo meno non nel mondo del padre. Se esiste ancora è altro, in altro luogo, qualcosa di diverso a lui per sempre e d’ora innanzi sconosciuto.

L’altro tema che McEwan esplora è quindi quello della perdita nelle vite umane; rappresentato non solo della figlia, ma anche nella figura del migliore amico del protagonista, che Stephen vede allontanarsi senza riuscire a recuperare, un ex Primo Ministro che alterna il desiderio di successo in politica e nella vita con il fortissimo sogno di tornare bambino, vivere senza responsabilità nella beata sicurezza dell’infanzia, fino a diventare schiavo di questa patologia. Ma naturalmente, il senso di tutto, nella vita, è guardare avanti, non indietro, come Stephen ci confermerà nelle pagine finali del libro.

Libro che ho trovato, onestamente, a tratti un bel po’ noioso. E’ McEwan, quindi scrittura elegante, incredibile capacità di far uscire carattere, umore, pensieri dei protagonisti in una singola sentenza complessa, stile impeccabile. Ma la storia per me non ha decollato per quasi tutta la parte centrale, impantanata ora da un poco di realismo magico con sovrabbondanza di dettagli sensoriali, ora da una serie francamente tediosa di discorsi tenuti dai vari membri della commissione ministeriale per l’istruzione, tutti dimenticabili, ora da panegirici mentali del protagonista, che si perde tra i labirinti della memoria e scie di umori e pieghe dei ricordi portando noi a perderci con lui. Un libro poco scorrevole e con digressioni stancanti, che tuttavia mantiene una magistrale capacità descrittiva e significativa potenza di messaggio e riflessione.

Tra curve temporali e flashback, sesso e pietà, satira e crudeltà, infanzia e mondo adulto, Bambini nel tempo cammina grave e complesso verso un finale un po’ telefonato ma di una certa poesia, e non del tutto consolatorio. E’ vero, si deve guardare sempre avanti, per sopravvivere, e il senso di questa vita, del tempo che abbiamo, non è indietro nei ricordi. Ma il passato, anche se doloroso, è quello che ci ha portati fin qui: rinnegarlo è impossibile, ignorarlo è una finzione. E in fondo “non si può vivere nel tempo presente, perché non esiste… perché noi siamo fatti di tutti i nostri ieri.”

Non un capolavoro, ma tre stelle e mezzo de rigueur.

Lorenza Inquisition