L’Arminuta – Donatella Di Pietrantonio #arminuta #recensione

Una storia e una scrittura potente, intensa come poche altre.
Una storia durissima. Crudele. Un Abruzzo duro, ruvido, di 40 anni fa.
Dove gli adulti sono cupi, brutali, senza affetto, dove si è poveri e tristi, dove portare a casa un pezzo di pane è l’unica cosa che conta, per avere poi la forza di ricominciare tutto al mattino dopo, senza prospettive ulteriori.
Un abisso tra questi sconfitti dalla vita e i loro figli.
Costretti anche loro nella miseria, nella sporcizia, nell’ignoranza e nella fame, ma capaci ancora di amare, di stringersi, di cercare una via di uscita dignitosa.
Come l’Arminuta e come Adriana.
L’Arminuta, la “ritornata”, la storia è la sua. La storia di un abbandono terribile. Cosa c’è di peggio di una ragazzina che perde ogni punto di contatto, che resta sola, e a cui tutti fanno pesare il fatto di essere venuta al mondo?

“La parola mamma si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori.
Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza.
È un vuoto persistente, che conosco ma non supero”.

“La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure”.

Come se lo avessi chiesto tu, di nascere, a qualcuno. Come se fosse una colpa. Come se lo avessi chiesto tu, di avere una famiglia, di avere tutto, e poi di perderlo. Non appartieni più a nessuno. E’ come essere morti in vita.
Prima accudita, curata, amata. Poi abbandonata al tuo destino, alla tua sola capacità interiore di sopravvivere.
La paura, la rabbia, il dolore, l’incapacità di stare bene in una situazione tremenda. Questa scrittrice ci fa percepire tutto. Con parole scarne, dirette. Come se vedessimo un film. Le scene non le immaginiamo, le guardiamo.

Ma, nella disgrazia, nasce questo rapporto meraviglioso, nel freddo della vita c’è questo incontro pieno di calore, e di amore. C’è Adriana, così minuscola ma così forte, così intelligente, così umana, e nasce questa reciproca protezione dagli urti e dalle cattiverie di quella vita. Un esserino che dimostra più forza e maturità di un adulto. Un fiore nato nella miseria, questo rapporto è la parte più bella del libro, a cui non si smette di pensare. Perché rappresenta l’unica speranza di un futuro diverso. Adriana che ti aspetta col broncio, perché ora sei tu quella che rischia di abbandonare qualcuno che dici di amare, Adriana che ti si accoccola accanto, Adriana che ti stringe, Adriana, col suo piede sul tuo viso, la notte, nello stesso letto. L’unico calore umano vero.

L’Arminuta ci insegna a non mollare, a lottare per avere una spiegazione, per avere una ragione, a rivendicare il diritto ad un’esistenza degna di questo nome. Adriana ci insegna la forza della sincerità, dell’istinto, del cuore, la potenza che si possiede quando si ha la forza di essere sempre se stessi. Voglia di abbracciare entrambe, con una commozione sincera.

“..Nella complicità ci siamo salvate.”

Una grande emozione, questo libro.

Musica: Pane e castagne, Francesco De Gregori

Carlo Mars

Il sentiero dei nidi di ragno – Italo Calvino #ItaloCalvino

liberta

« Forse non farò cose importanti, ma la storia è fatta di piccoli gesti anonimi, forse domani morirò, magari prima di quel tedesco, ma tutte le cose che farò prima di morire e la mia morte stessa saranno pezzetti di storia, e tutti i pensieri che sto facendo adesso influiscono sulla mia storia di domani, sulla storia di domani del genere umano. »
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno

Libro n•14_ un libro che a scuola hai davvero detestato

Non lo finii in terza liceo, non gli diedi una seconda chance, dopo pochi capitoli lo abbandonai come noioso. Calvino non lo so apprezzare veramente, c’è poco da fare, a distanza di 11 anni ancora non mi piace, però sono riuscito a masticarlo piano piano in queste settimane fra un libro e l’altro e ad arrivare all’atteso finale. È un libro che ti spiazza e ho capito che la fatica che ho provato nel leggerlo tutte e due le volte forse dipende dal fatto che odio ammettere di essermi immedesimato in Pin. Perché il personaggio che preferisco è Kim, lo psichiatra, e invece fra tutti mi trovo a simpatizzare per il ragazzino disagiato e per quello che rappresenta. Ho una mia teoria, magari poi sviante e non appartiene alle intenzioni di Calvino, peró resta il fatto che leggendo ho pensato che tutto il libro ruota intorno a un sentimento in particolare, che è la delusione, a cui ruotano attorno come satelliti la disistima, la paura dell’abbandono e il tradimento.
Pin non ha veramente amici: i ragazzi della sua età ne hanno paura, perché Pin non ha la loro innocenza, dato che è stato educato alle cose del mondo dalla crudezza della sorella. Non sono suoi amici gli alcolizzati dell’osteria con cui si scambia solo scaramucce, non è sua amica sua sorella che a tutte le ore fa salire in camera sua gli occupanti militari tedeschi e non sono suoi amici i soldati e i partigiani. Pin impara a guardare il mondo dei grandi con uno sguardo consapevole anche se ancora acerbo: non capisce tutto quello che vede e che sente, ma capisce molto più di un qualsiasi ragazzino della sua età. Viene un po’ usato da tutti: dai reietti dell’osteria, dal padrone per cui lavora e dai militanti partigiani. In effetti in queste relazioni Pin investe emotivamente un gran capitale affettivo, immagino tutto quello che non può riversare su figure parentali (una morta e uno scappato) ma non viene mai ricambiato veramente, viene visto come un elemento fastidioso, che chiede attenzioni e che se non le riceve risponde con pungenti verità, che i grandi in genere cercano di tenere nascoste. Pin è indesiderato. Pin capisce di non essere voluto veramente dalle persone con cui interagisce. Pin risponde a crudeltà con crudeltà, ma non vuole essere così: in effetti ci soffre parecchio. Finale un po’ buonista: non so se Calvino mi ha convinto veramente, se è davvero così che voleva far finire la storia o se ci è stato tirato per i capelli da qualche astuto editore o dal consiglio di qualche fidato amico scrittore. Fatto sta che nella realtà è difficile immaginare che le cose possano finire con un po’ di gentilezza, dopo aver ricevuto per una vita così poca gentilezza. Secondo me, in questo senso, è più onesta Agota Kristoff che ne La trilogia della città di K. arriva a una conclusione diversa partendo da premesse e personaggi simili. Tuttavia non mi permetto di infangare un classico e concludo solo dicendo che forse non mi è piaciuto perché mi ha spiazzato scegliendo di terminare così il romanzo, peró allo stesso tempo sono contento che ci sia un senso positivo: sarò smielato dentro.

Stefano Lillium