Tre terzi – Diego De Silva / Valeria Parrella / Antonio Pascale @Einaudieditore

Diego De Silva – Casa chiusa

Valeria Parrella – L’incognita “Mah”

Antonio Pascale – La soluzione

Tre atti unici su chi non è in scena. Tre pièces sull’identità di un terzo assente che viene svelato solo alla fine. Tre scrittori di sicuro talento.

treterzi

Un chicchino vero.
Napoli, tre voci napoletane, tre stili narrativi impeccabili che si incontrano e disegnano una geografia di fughe e altrove che avvince e nutre.
Andato in scena al teatro Mercadante di Napoli per la regia di Giuseppe Bertolucci e Luisa Grosso ed interpretato da Marina Confalone (sic! c’era da esserci orcodiavolo), è davvero un “gioco” di talento letterario che solletica la riflessione, teatro di luoghi in cui la vita si racconta tenuta in braccio dagli assenti, tenendoli in braccio. Un terzo amico, una moglie passata a miglior vita, le ombre di una famiglia ricca da poco: la scena li interpreta senza che compaiano e ciò che ne risulta è l’odore dei quartieri, la cultura degli anfratti, l’esilarante miseria degli errori.
Costa poco tempo e un po’ di voglia di volarsene via anche restando in poltrona. Magari con un buon bicchiere di Aglianico a dire anche lui la sua
.

rob pulce molteni

DESCRIZIONE

Casa chiusa di Diego De Silva si sviluppa tutta all’interno di una camera da letto in cui un uomo e una donna discutono tra loro di una terza persona amata da entrambi.
L’incognita «Mah» di Valeria Parrella mostra una cartomante trans-televisiva dalla vena tipicamente comica in un dialogo surreale con la moglie di un cliente passata a miglior vita.
La soluzione di Antonio Pascale è ambientata in una Napolinobiliare dove un padre dilapida il patrimonio di famiglia e una figlia viene confinata in un limbo perché non abbia nulla da pretendere.
Tre pièces dove Napoli, la sua lingua, il suo microclima esistenziale, la sua morfologia antropologica, costituiscono il tema e nello stesso tempo il perimetro delle fughe nell’immaginario, degli altrove narrativi e drammaturgici in cui si muovono i diversi protagonisti.

Tre terzi è andato in scena al Teatro Mercadante di Napoli, diretto da GiuseppeBertolucci e Luisa Grosso e interpretato da Marina Confalone.

Valeria Parrella – Tempo di imparare #ValeriaParrella @Einaudieditore

«E io mi preparo.
La mattina faccio la cartella: elmetto, e mela per la merenda.
Fucile e quaderno a quadretti grandi.
Marca da bollo e penna con l’impugnatura facilitata.
Vestito buono e cuore cattivo.
Mi preparo – ma accettare, quello ancora non riesco».

PARRELLA

*nella nostra sabbia i piedi camminano uguale*
Lo sguardo di una madre di un bambino speciale (disabile, sì, speciale, per forza di cose) si schianta così nel tuo sguardo migrante fra le righe. Migrante perché vorrebbe uscirne, scappare, a momenti chiudi il libro forte per non sapere più, per voltargli le spalle a quel grido, a quell’ammissione di impotenza; perché certo dolore ammazza, c’è poco da fare. T’ammazza. E non sai dirlo, non lo osi, e non solo perché hai paura di sciuparlo (che è sacro, è devastante e sacro), ma anche perché è tanto, troppo, e le cose troppe fai fatica a digerirle come si deve, in frasi come si deve, immagini come si deve. Valeria ci riesce e sulle pagine senti odore di pelle, come quando ti scotti e la carne ha all’improvviso quell’odore di cotto, di usato, di scappato via.
Che scrittura straordinaria. Potente e straordinaria. Meridionale e vera. Aulica e pane. Quel fare dell’italiano il setaccio perfetto a raccogliere le sfumature, soprattutto quando stai parlando della sostanza, ma hai bisogno che si colga l’anima, come si specchia sfregiata quando vedi le rughe, le conti, e scopri che sono voragini.
Mammamia e grazie.
Punto a capo.

rob pulce molteni

DESCRIZIONE

Fare il nodo ai lacci delle scarpe, colorare dentro i contorni, lavare bene i denti (anche quelli in fondo), salire scale sempre nuove senza stringere per forza il corrimano. E poi: avere lo sguardo lungo, separare l’ansia dal pericolo vero, vincere, perdere, aspettare, agire, confidarsi, farsi valere, rassegnarsi. A dover imparare tutto ciò, in questo romanzo colmo d’energia e dal potere medicamentoso, sono una donna e il suo bambino. Lei ha l’esperienza, mentre lui per capire mira all’essenziale; lei ha occhi pronti a cogliere ogni spigolo, mentre lui da dietro gli occhiali le insegna a leggere il mondo a due dimensioni.
Davanti a loro si stagliano tutti gli ostacoli possibili, e per fronteggiarli hanno a disposizione molta paura e altrettante armi. La paura è quella di non farcela, e le armi a ben guardare sono le stesse della letteratura: nominare le cose, percorrerle, trasfigurarle, lasciarle andare. Tenendosi per mano – ma chi reggendo chi è difficile dirlo – si muovono tra fisioterapisti e burocrati, insegnanti e compagni di classe, barcollando o danzando, ma sempre stringendo nel pugno una parola difficile che comincia per «H», e che sembra impossibile far germogliare.
Perché se hai tatuato addosso il numero 104 – quello della legge sulla disabilità – e vivi in un mondo «che non ha proprio la forma della promessa», mettere un passo dopo l’altro diventa ogni giorno piú difficile. Ma c’è chi prima di loro e insieme a loro ha solcato lo stesso mare impetuoso, facendosi le stesse domande: «Stiamo tornando indietro o andando avanti? Quando si è in navigazione da tanti anni si perde la rotta».
Tempo di imparare è un libro scritto in prima persona, in cui «io» e «tu» diventano un’unica cosa: «irriducibili l’uno all’altro, eppure intercambiabili». La voce di Valeria Parrella – intima, abissale – dice il momento in cui la relazione tra ogni genitore e ogni figlio si strappa, il binomio si scompone, e ci si guarda da lontano: per intero.