Il libro del riso e dell’oblio – Milan Kundera #Kundera #riso #Adelphi

“La lotta dell’uomo contro il potere e la lotta della memoria contro l’oblio”.

Traduttore: A. Mura
Editore: Adelphi
Collana: Gli Adelphi

Ho appena terminato questo libro, definito da Kundera, verso le ultime pagine, come un “romanzo in forma di variazioni”.

Così come l’essere umano, sospeso a metà tra l’infinitamente grande e l’inifinitamente piccolo, accetta di perdersi nella vasta infinità esteriore, ma non sopporta di non riuscire a possedere fin nell’intimo centellio il mondo interiore della persona che ama, così Beethoven, nell’ultima fase della sua vita, esplorò accuratamente le variazioni musicali, concentrando le sue sedici battute nelle infinite sfaccettature del suo microviaggio. Allo stesso modo, Kundera suddivide l’opera in sette parti, due dedicate all’amato personaggio di Tamina, naufraga malinconica che vive aggrappata al peso di un passato evanescente e perduto, piena di potenzialità di vita ma senza una meta a cui tendere, la prima allo scienziato Mirek, che va inesorabilmente incontro al suo destino quando decide di opporsi, con la passione inglobante e noncurante del proprio benessere personale che brucia solo nella vocazione, al potere costituito, lottandovi contro come la memoria lotta con l’oblìo.
Nella seconda parte, una giovane coppia, ormai imprigionata dal giogo del contratto che viene implicitamente stipulato tra gli amanti nelle prime delicate settimane d’amore, giogo che è diventato insopportabile dopo anni di matrimonio, decide di scegliere un’amica comune, Eva, cacciatrice sensuale e votata all’amicizia, lontana dall’egoismo e dall’isteria dell’amore, che fondendosi con i loro corpi restituisca, come un’oasi, un boccata fresca di libertà. Il tutto sullo sfondo della tenerissima fragilità e piccineria della “mamma” di lui, delineata con tratti profondi e delicati, come una pera immortale che si staglia sullo sfondo sfocato di un carrarmato tanto più reale, quanto più immateriale per la lente rassicurante ed egocentrica con cui guarda la vita questa anziana donna.
C’è una parte poi dedicata a uno studente, divorato all’interno dal concetto inesprimibile in altre lingue della lítost, che è quel tormento insopprimibile che proviamo di fronte allo spettacolo indicibile della nostra miseria, e che ci spinge alla vendetta. Con l’inferiore, attraverso la violenza. E di fronte a un potere superiore, come gli spartani contro i persiani, o come lo studente di fronte all’ineluttabilità di una notte d’amore scivolata via dalle mani per uno stupido errore, attraverso l’immolazione dello schiaffo riflesso, dell’omicidio attraverso il suicidio. Bellissima anche la riflessione, contenuta in questa parte, sull’amore e sul bruciare della passione che trasforma le miserie e le vergogne ammantandole di stelle, contrapposta a quella ironica e disincantata della concretezza dei sensi, e della schiettezza asciutta dell’onestà.
Nell’ultima parte prende vita Jan, donnaiolo che nella continua ripetizione dei suoi schemi di corteggiamento, solleva con una mano la polvere che nasconde il confine, intesa come quella linea metafisica che ci accompagna tutta la vita, oltre la quale le cose si svuotano di senso, e il ridicolo e la tristezza prendono il sopravvento. Quella ragnatela sottile a cui sentiamo di essere appesi per la vita, e che un live soffio di vento può scostare anche solo di un millimetro per farci guardare tutto con occhi diversi, come la nudità, simbolo di emancipazione e libertà dei sensi, che diventa improvvisamente insignificante, triste. Sudario.
Tutto questo sullo sfondo del tema principale, quelle sedici battute che per Kundera sono il 1948, quando il popolo boemo consacra la liberazione dal nazifascismo e l’insediamento al potere dei comunisti, e la parte migliore degli intellettuali della popolazione partecipa entusiasta alla creazione del nuovo governo, e gli anni successivi, in cui l’azione sfugge al controllo e quei giovani intellettuali diventano i nemici più feroci di questo finto idillio, arrivando agli estremi della Primavera di Praga, il 21 agosto del 1968, quando i russi invadono la Boemia con i carrarmati per ristabilire l’ordine. 120.ooo emigrati, 500.ooo persone che perdono il loro lavoro per essere emarginate, con un attento calcolo, ai confini più lontani della società, incarcerazioni, impiccagioni degli oppositori politici.
E i personaggi delle variazioni fanno ognuno i conti con l’emarginazione, la lotta per la libertà che arriva ad affacciarsi sulla vertigine del confine, il tentativo di ribellarsi agli occhi gelidi degli angeli con il riso diabolico e pieno che frattura qualsiasi realtà dittatorialmente ingessata, e la ricerca di conservare la memoria fuori dai confini di un paese dove a presiedere è l’oblìo che cancella ogni passato, sfociando in un’infanzia senza ricordi e senza nome, in cui l’antinomia tra osceno e ingenuità si fonde nel muto terrore di un soffocante abbraccio, che punisce ogni dissenso, osservando con occhi avidi e spalancati l’agonia del diverso.
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La mia personale impressione è quella di aver letto un testo che mescola romanzo, diario (molte le meravigliose riflessioni personali che Kundera fa in prima persona ricordando la sua vita, come il dialogo senza parole ma carico di sentimento con il padre quasi muto, che viene accompagnato nel suo laborioso viaggio verso la morte), resoconto storico, il tutto ingemmato dai limpidi tasselli estetici di riflessioni filosofiche, che risuonano come quell’ “anello d’oro che cade in un vaso d’argento” che è il diapason del silenzio del giovane malato di Thomas Mann, sussurro che fa emergere dal baccano della vita contemporanea l’Atlantide della Bellezza, una morte senza cadavere, stemperata nell’infinito azzurro del cielo.

Giulia Casini

Le cure domestiche – Marilynne Robinson #MarilynneRobinson #Einaudi

“Mi venne in mente che la maggior parte delle persone nelle stazioni degli autobus sarebbero state degne di nota se non ce ne fossero state tante e tutte altrettanto degne di nota.”

Traduttore: D. Vezzoli
Editore: Einaudi
Collana: Supercoralli

Dall’autrice della trilogia formata da Gilead, Casa e Lila, il vincitore del PEN/Hemingway Award 1982, inserito dal «Guardian Unlimited» fra i cento piú grandi romanzi di tutti i tempi.

Primo romanzo di Marilynne Robinson, di molto precedente alla trilogia di Gilead. Pubblicato nel 1980, è uscito in Italia per la prima volta nel 1988, con il titolo – decisamente sviante – di Padrona di casa. Poi riedito da Einaudi.
Romanzo bellissimo.

Ruth e Lucille non hanno mai visto Fingerbone, la cittadina del Midwest che ha dato i natali alla loro mamma Helen, né le acque fonde e cupe del lago intorno a cui sorge. Ma quel lago, che in passato è stato teatro di un tragico e spettacolare disastro ferroviario, divenendo luogo di eterno riposo per molti abitanti della zona, pretende un grande tributo dalle loro giovani vite. Lo esige il giorno in cui Helen decide di riconsegnare le bambine alle loro origini e, dopo aver affrontato il lungo viaggio da Seattle, le deposita sul portico della casa avita con un pacco di biscotti da sgranocchiare per ingannare l’attesa; quindi, senza una parola di commiato né una riga di spiegazioni, risale in macchina e va a gettarsi nel lago.

“Io non riesco ad assaggiare una tazza d’acqua senza ricordare che l’occhio del lago è quello di mio nonno e che le acque pesanti, cieche e opprimenti del lago composero gli arti di mia madre, appesantirono i suoi indumenti, bloccarono il suo respiro e bloccarono la sua vista.”

Una delle due bambine, Ruth, è la voce narrante della loro storia. Racconta per sottrazione, ogni persona qui è destinata in qualche modo ascomparire, a non esserci, mentre la casa rimane l’unico punto di riferimento e di congiunzione di vite. La casa e l’alto terreno su cui è stata edificata rappresentano la continuità, l’appartenenza; sono la vita, l’attaccamento alla terra, la fedeltà ad una scelta.

Sulle rive del lago le bambine cresceranno in un isolamento quasi totale dai loro coetanei, in un rapporto felicemente simbiotico, pattinando sulle acque gelate, scorazzando per le rive quasi fino a perdersi nei gelidi e rarefatti paesaggi lacustri, lontane dai rumori della città, immerse nel silenzio della natura. Ma il lago è anche una presenza minacciosa, quando il gelo finisce e le piogge lo fanno tracimare nel paese, fino a invadere con le sue acque, così pregne di storie, le case di Fingerbone. Allora bisognerà ritrarsi a vivere nella mansarda lasciando che l’acqua impregni tutto e poi, piano piano riscenda. La casa, in cui le due sorelle vivono diventa il personaggio principale, una casa immersa e sommersa dalla natura, il fulcro della vita di una famiglia esclusa dalla civiltà. Ma c’è altro, le conseguenze dell’abbandono, della morte, dell’assenza.

“La memoria è il senso della perdita, e la perdita ci trascina appresso a sé.”

La cura delle due orfane negli anni passerà alle mani di una successione di parenti femminili, fino alle cure domestiche della zia Sylvie, sorella minore della loro madre, personaggio misterioso, affascinante e inquietante nello stesso tempo, disturbato, reduce da una vita di vagabondaggio, con un lungo capotto e scarpe e vestito leggero, racconterà alle due ragazzine storie infinite che hanno a che fare sempre con treni e stazioni.
Di fronte al modello evanescente e sradicato della zia, le due sorelle, fino a quel momento una sola anima scagliata nel mondo, devono interrogarsi sul senso dell’appartenenza e del ritorno, venire a patti con la solitudine, e scegliere la loro idea – reale, metaforica e universale – di casa. Separazione dolorosa e inevitabile dunque: Lucille sceglierà di scrollarsi di dosso il peso dei morti, della loro assenza, del ricordo, per cercare una forma di integrazione sociale, mentre Ruth, voce narrante del libro, si lascerà trascinare nel mondo di Sylvie, segnato dalla precarietà e da un progressivo sradicamento.

Romanzo di formazione, romanzo al femminile, romanzo sulla solitudine e il radicamento o il non radicamento. Romanzo che quando lo finisci vorresti ricominciarlo da capo perché ti pare di aver perso qualcosa tanto è ricco di riflessioni, di pensieri e di stati d’animo. Scrittura magistrale, poetica, affascinante, potente.

“Avere una sorella o un’amica è come sedere di sera in una casa illuminata. Quelli di fuori se vogliono possono guardarti, ma tu non hai nessun bisogno di vederli.”

Pia Drovandi

“La fama italiana di Marilynne Robinson è legata in larga parte alla straordinaria trilogia composta da Gilead, Casa e Lila: tre romanzi strettamente interconnessi e pubblicati in un decennio esatto (dal 2004 al 2014), in un’esplosione creativa tdavvero sorprendente.

Se Gilead, premiato con il National Book Critics Circle Award e con il Pulitzer tra il 2004 e il 2005, ha segnato la definitiva affermazione di un’autrice che godeva già di un ampio e consolidato sostegno critico, e i due, successivi capitoli della trilogia hanno figurato entrambi tra i finalisti del National Book Award, pur non arrivando ad aggiudicarsi il premio, la fama di Robinson ha subito un’impennata ancor maggiore grazie al sorprendente endorsement di Barack Obama, il quale non si è limitato a segnalare Gilead tra i suoi libri preferiti, ma – caso pressoché senza precedenti – ha intervistato la scrittrice per la New York Review of Books”. Luca Briasco, Minimia et moralia