Stephen King – Shining #shining #StephenKing #recensione

This inhuman place makes human monsters. Questo posto inumano che genera mostri umani.

*Rileggere Stephen King, libro tre.

The Shining è un libro che ho letto tra il 1984 e il 1987, in quella triade di anni in cui mi mettevo in pari con tutto quello che il Re aveva scritto fino ad allora. Erano però anche gli anni in cui insieme alla mia amica Bobby scoprivo il genere horror alla televisione, buttandomi su qualsiasi schifezza o capolavoro ci passasse tra le mani: visioni di La casa e Zombi, di L’ascensore e Per favore non mordermi sul collo, di Hellraiser e Venerdì 13 e, naturalmente, di Shining. Ho letto il libro dopo aver visto il film, ed è stato un grave errore, perchè l’ho consumato in fretta, cercando le parti paurose con in testa Jack Nicholson e le gemelline, ed è un peccato. Perchè per anni sono rimasta convinta che il film di Kubrick sia uno dei pochi esempi di film migliore del libro, e onestamente non capivo perchè a King non piacesse, anzi lo avesse proprio ripudiato. C’era anche un’altra cosa che mi lasciava proprio perplessa, King stesso racconta che insieme a The Stand, The Shining è stato per anni il libro favorito dai suoi fan, quello che chi lo incontrava in aeroporto o a qualche reading gli chiedeva di autografare, dieci anni di solida preminenza sul podio dei favoriti dei suoi Fedeli Lettori, prima dell’avvento degli anni ’80 e di It e Misery e compagnia bella. Per cui qualquaglia non mi cosava, come poteva essere che fosse un libro così amato dai fan che a me era parso una mezza schifezza? Avrei già voluto rileggerlo quando era uscito Doctor Sleep, che è il suo seguito. Poi tra un libro e l’altro mi sono persa, e finalmente mi sono decisa dopo che la Lipperini, uscita da It al cinema, ha spiegato che le è piaciuto -tra le altre cose- perchè rispetta idee e atmosfere del libro, al contrario di, per esempio, The Shining.

Quindi l’ho letto, concentrata, scevra da pregiudizi, mente libera anche se è impossibile non pensare a Jack Torrance con la faccia di Nicholson. Ma a parte questo, non mi sono distratta, e ragazzi, che libro. Che libro.

La trama, di base, non è in fondo molto originale, una famiglia isolata, segregata in una casa maledetta, impossibilitata a scappare; però è resa in modo eccellente, ci si addentra piano nella storia e nel delirio, con l’angoscia che cresce in modo graduale. Il libro si basa in effetti su demoni materiali, paure che tutti gli adulti si portano dentro: la poca austostima generata da genitori prevaricatori, problemi seri come l’alcolismo e la dipendenza da sostanze, il terrore di diventare quello che si era giurato di non diventare mai in cicli che si ripetono di genitori abusivi (il padre di Jack fisicamente, la madre di Wendy emozionalmente), la paura che il proprio figlio sia seriamente malato, l’ansia di pensare che non si portà aggiustare qualcosa che si è sbagliato terribilmente, il convincimento interiore che non siamo davvero degni di essere amati. Poi c’è la solitudine di un bambino, figlio unico, che si inoltra nel reame misterioso degli adulti. Danny, lo sappiamo, può leggere le menti e ha premonizioni, il che rende le sue perplessità tra il mondo reale, che vede e capisce, e il mondo che legge in testa ai genitori, che gli sfugge in molte sfumature, ancora più disturbanti.

Jack Torrance, il papà di Danny, è un ex alcolista che a causa dei suoi problemi di dipendenza ha perso un buon lavoro di insegnante, la sua ispirazione come scrittore, e ha quasi portato la moglie alla decisione di divorziare. E’ un uomo con tanti problemi, ira repressa, insicurezza sul proprio talento di scrittore, scarsa empatia umana; ma vuole davvero bene alla moglie e al figlio, e cerca di rimettersi in carreggiata. Accetta il lavoro come custode invernale all’Overlook perchè lo vede come una possibilità di crescita sia personale sua, sia di loro tre come famiglia. Ma l’Overlook ha altri piani.

The shining è, ovviamente, una storia paurosa. Le cose più spaventose del libro, comunque, non sono tanto quelle che ricordiamo dal film: la vecchia putrescente che si alza dalla vasca da bagno per inseguire un bambino curioso che è andato in una stanza in cui non doveva entrare; o il sogno di quei corridoi bui in cui Danny scappa sentendo qualcosa che lo insegue sbraitando il suo nome (anche se, certo che fanno paura, cazzarola!). Il vero orrore nasce da come King usi la storia della casa infestata per parlare di demoni personali e molto umani che, come ammetterà in seguito, erano davvero usciti diretti dalla sua vita: l’alcolismo e l’abuso di sostanze stupefacenti (dipendenze da cui uscì solo nei tardi anni ’80), le insicurezze riguardo il suo talento di scrittore, il timore del fallimento visto che era appena al suo terzo libro e il successo era ancora lontano, e una certa paura quasi inconfessata che la vita familiare potesse essere un ingombro in tal senso. Jack Torrance veicola tutto questo per tutta la prima parte del libro, e onestamente di tutto questo non c’è traccia nel film. Quando Nicholson appare sullo schermo, alla prima inquadratura della sua faccia capiamo che la pazzia scorre profonda sotto la superficie in quest’uomo, non serve un gran lavoro psicologico per capire che si consegnerà mani e piedi alla forza maligna che domina l’Overlook. Ma questo gran lavoro psicologico nel libro c’è, ed è magistrale, ed è quello che fa la differenza: l’idea di essere intrappolati in una casa infestata isolati dal mondo fa paura, ma in quel modo cinematografico e surreale di una storia alla Barbablù; l’idea di essere in trappola in un posto isolato con un ubriacone manesco mentre diventa gradualmente e inesorabilmente pazzo, è più che inquietante, e in modo reale. King spiegava in un’intervista che era talmente in negazione verso il proprio problema di dipendenze che non si è praticamente accorto di aver descritto sè stesso in Jack Torrance, ed è questo che rende il personaggio di Jack vero, umano, e assai vulnerabile a quello che il Male ha in serbo per lui per arrivare a Danny. E di questo, di nuovo, nel film non c’è traccia. Nicholson come Jack Torrance è straordinario, ma non veicola empatia, nè trasmette mai il senso di amare sinceramente la propria famiglia; dal momento in cui entra nell’ombra dell’Overlook, è già suo, senza grandi lotte o dilemmi morali. Nel libro, è una battaglia lunga e angosciante, perchè King, essenzialmente, è uno scrittore di problemi etici: la vera sfida, quello che davvero gli interessa scrivere, nei suoi libri, è il vedere come, e se, i suoi protagonisti decidano di opporsi alle forze del Male, che siano rappresentate da un gruppo di vampiri, da uno zio che ha un doppio malvagio nei Territori, o da un hotel stregato. Quanto riescano ad opporsi e quanto siano disposti a sacrificare è, alla fine, quello che fa la differenza nei suoi personaggi per crederli buoni o malvagi, e spesso, come nella vita reale, il confine tra Bene e Male nelle persone è labile e umanissimo.

Shining di Kubrick è un film meraviglioso, che fa paura in un modo visivamente e tecnicamente perfetto; ma non c’è la profonda costruzione psicologica dei personaggi del libro, nè le storie di quello che è stato il loro passato prima di arrivare all’Overlook.

Shining di King fa meno paura, è più verboso, più profondo, più vero; è un libro che lascia una profonda tristezza, una volta che lo si è chiuso. Perchè parla della dissoluzione di una famiglia che è stata felice per qualche anno, e di come i problemi di alcolismo e rabbia repressa di uno dei genitori, nonostante il genuino desiderio di fare meglio, e di fare ammenda, vincano alla fine su qualsiasi altra considerazione. Parla di un bambino intelligente e sensibile che vuole bene al proprio padre anche se qualche volta ne ha paura, e anche se in passato questo papà amato si è trasformato in un mostro ubriaco che lo picchia. Ma i bambini amano i genitori, anche se abusivi, e possono convivere con questi sentimenti per molto, molto tempo. E Jack lo sa, ed è terrorizzato dal pensiero di essere come il proprio padre, di arrivare un giorno ad alienare l’amore del suo bambino: “Jack aveva amato suo padre per tutto il tempo che aveva potuto, molto più a lungo di quando tutto il resto della famiglia era arrivata ad odiarlo e averne paura”. E alla fine, quando l’Overlook avrà preso Jack per arrivare a Danny, tutta questa lotta culminerà in un momento di verità che nel film non esiste, e credo che sia questo, sopra tutto, quello che ha fatto odiare a Mr. King il lavoro di Kubrick: perchè manca un tentativo di redenzione umana, e alla fine del film noi temiamo e odiamo Jack Torrance congelato nel labirinto, ma non proviamo compassione per lui. Nel libro, è impossibile non provarne.

Ci sono tantissime storie di fantasmi al mondo, molte davvero buone, e paurose. Ma ce n’è solo una che parla del particolare orrore che scorre nelle emozioni sotterranee di un fallito che cerca invano di redimersi mentre lotta per salvare il figlio dalla dannazione, e se volete leggerla, e soprattutto se pensate che avendo visto il film sapete com’è questo libro, per favore leggete The Shining di King.

 Ci sono cose che non si dovrebbero dire ad un bambino di sei anni, raramente si riesce a far concordare le cose come dovrebbero essere e come realmente sono. Il mondo è duro, Danny. Se ne frega, non ci odia, no, ma nemmeno ci ama. Cose terribili accadono nel mondo, e si tratta di cose che nessuno sa spiegare. Le persone per bene muoiono in circostanze atroci e lasciano nello strazio chi li ha amati. Il mondo non ti ama, ma la tua mamma ti vuol bene, e io pure. Tu sei un bravo bambino. E quando ti viene voglia di piangere per quello che è accaduto a tuo padre, nasconditi in un armadio o sotto le coperte e piangi finché non ti sei liberato di tutto il peso che grava sul tuo cuore. È questo che deve fare un buon figlio. Ma bada a tenerti in carreggiata. È questo il tuo compito in questo duri mondo: tenere vivo il tuo amore e badare a tirare avanti, qualsiasi cosa accada. Fatti coraggio e continua per la tua strada.

Lorenza Inquisition

 

La zona morta – Stephen King #StephenKing #TheKing #recensione

Niente è perduto per sempre. Niente che non possa essere ritrovato.

La zona morta – Stephen King
Traduttore: A. Terzi
Collana: Pickwick

Avvicinandomi alla vecchiezza ho deciso di rileggere quei libri di King che ho letto una sola volta trent’anni fa, quando ho cominciato a seguirlo. Non tutti ovviamente, solo quelli di cui ho un buon ricordo, ma che per un motivo o per l’altro non ho mai più riletto. Uno di questi è La zona morta, che ricordavo come un buon romanzo, molto triste e molto vero, impressioni che la rilettura ha confermato.

E’ il quinto libro di King, per certi versi ancora “prima maniera” nonostante sia stato scritto dopo The Stand, che è comunque lontano anni luce come profondità, struttura, maturità. Come stile narrativo ricorda un poco il suo primo romanzo, Carrie, e il successivo L’incendiaria: il racconto si evolve anche con l’aiuto di inserti di diari, articoli di giornali, interviste a testimoni, lettere. Come negli altri titoli citati, la storia non è propriamente horror, è più un elemento soprannaturale; il reale orrore sono gli abissi spirituali in cui cadono certe persone, il peso della vera conoscenza, la triste inutilità della lotta contro il proprio destino.

Come detto, la vicenda de La zona morta, terribilmente umana e paranormale allo stesso tempo, è piuttosto dolorosa: lo sventurato John Smith, il protagonista, riceve in seguito a un incidente un dono, il sinistro potere della premonizione, che lo condanna all’esilio da quella che era una tranquilla, banale vita medio borghese, e lo relega in un’altra dimensione, il mondo dei reietti, perchè diversi. La sua condanna è sapere ciò che accadrà prima che succeda, e quando non gli si dà credito, come Cassandra, egli viene ritenuto pazzo, mitomane, imbroglione. Ma quando gli si crede, è anche peggio: perchè nessuno vuole essere vicino a chi scruta l’abisso.

Questa è comunque una storia di solitudini, non del solo protagonista: c’è quella di suo padre che per anni deve convivere con la mania religiosa della moglie che sprofonda nella psicosi; c’è quella della madre, isolata nella sua pazzia; c’è quella che è per un periodo la ragazza di Johnny, che deve scegliere da sola il proprio destino, umanamente imperfetto.

E’ anche un racconto politico, della pancia rurale e blue collar degli Stati Uniti negli anni Settanta, dove gli elettori, disillusi dalla crisi economica e da una serie di candidati disonesti, profittatori o a volte semplicemente inetti, decidono di cambiare le carte in tavola sostenendo un outsider, un candidato scorretto, ignorante, volgare e prepotente, che piace all’americano medio perchè VERO, e che rischia pericolosamente di essere eletto tra lo scorno dei partiti tradizionali. Se vogliamo vederci un segnale di Trump al potere vediamolo, perchè è lì apposta.

Il partito America Oggi voleva mettere nei guai i mestatori in grande stile, voleva che le città andassero a picco o si mantenessero con i propri mezzi.  “Non c’è bisogno di spremere l’agricoltore per finanziare, con le sue sudate tasse, i programmi al metadone per New York City”, proclamava Greg. Voleva abolire l’assistenza sociale alle prostitute, ai ruffiani, ai vagabondi e a chi aveva la fedina penale sporca, voleva che la completa riforma delle tasse fosse pagata da altrettanti tagli ai servizi assistenziali. Tutta e sempre la vecchia canzone, ma il partito America Oggi di Greg la modulava su una nuova affascinante tonalità.

E’ anche un libro sulle scelte difficili, la principale è quella che Johnny dovrà affrontare sulla propria responsabilità di poter cambiare la storia, e di conseguenza le vite di milioni di persone, dato che egli può conoscere il futuro. E quindi è una riflessione sulle scelte estreme che possono giustificare il male a fin di bene, e sulle  umane incertezze che si presentano quando si tratta di scegliere tra bene e male, argomento che qui viene gestito da King, secondo me, in modo esemplare. Però torna ad essere, soprattutto, la storia di una solitudine.

Johnny è solo, costantemente solo nella sua ricerca di un poco di pace e di un ritorno a un’esistenza tranquilla che gli verrà quasi costantemente negata. Nel “quasi” secondo me sta uno dei lati belli del libro: perchè Johnny non dispera, ci prova, va avanti comunque. Prosegue nella sua esistenza testardamente, e la sua vita, a volte grigia e terrificante per via della zona morta, non è sempre una sconfitta: ci sono le bellissime pagine del rapporto con il padre, c’è una storia d’amore molto melanconica ma non per questo meno vera, c’è il successo nella sua professione di insegnante con un allievo problematico. Per me, l’elemento positivo di tutto il libro è proprio Johnny, un personaggio scritto incredibilmente bene, che non si può dimenticare; ed è un buon romanzo perchè la storia, in fondo, non è un horror e nemmeno un thriller: è solo il racconto di un uomo che fa quello che può con quello che la vita gli ha riservato, nel bene e nel male; e non è forse quello che facciamo tutti?

Bene. Tutti facciamo quello che possiamo e dobbiamo accontentarci… e se non ci basta, dobbiamo rassegnarci.

Grande capitolo finale, pure poesia. Libro a tratti prolisso, molto poco horror per chi non affronta King perchè lo teme in questo senso, consigliato.

Lorenza Inquisition