Il mio nome è rosso – Orhan Pamuk #OrhanPamuk #letteratura #Einaudi

Il mio nome è rosso (titolo originale Benim adım Kırmızı) è un romanzo dello scrittore turco Premio Nobel Orhan Pamuk, pubblicato nel 1998.

È un libro narrativamente complesso e polifonico, occidentale ed orientale allo stesso tempo, articolato in 59 capitoli e narrati da distinti e divergenti punti di vista appartenenti ad una dozzina di personaggi, tra principali e secondari, fra cui figura anche Rosso, vale a dire il colore rosso, che dà il titolo al romanzo.

*Un vincitore dell’International IMPAC Dublin Literary Award e del Grinzane Cavour

“Allora mi venne in mente ciò che provavo quando, un tempo, guardavo per ore un bel disegno. Se lo guardi a lungo, la tua mente entra nel tempo del disegno. Avrei voluto che si facesse il ritratto della felicità. Quello stupido di mio figlio Orhan, che cerca di trovare una ragione per tutto, mi ricorda sempre che i maestri europei che disegnano continuamente belle madri abbracciate ai figli non potranno mai fermare il tempo e continua a ripetermi da anni che il disegno della felicità non potrà mai essere fatto. Forse ha ragione. L’uomo in realtà non cerca il sorriso nel disegno della felicità, ma la felicità nella vita. I miniaturisti lo sanno, ma è proprio quello che non riescono a disegnare. Per questo motivo, al posto della felicità nella vita mettono la felicità di poter vedere”.

Il mondo visto con gli occhi di Allah, il mondo interiore raccontato con i colori dei Maestri miniaturisti della corte del sultano sta per essere sconvolto dall’incontro con lo stile dei maestri italiani e fiamminghi. La volontà del sultano di incorporare lo stile occidentale all’interno della tradizione si scontra con la violenza e i dissensi delle frange più conservative dell’Islam rappresentate dal predicatore Nusret di Erzurum.

Presi in questa faida tra tradizione e innovazione, i quattro Maestri della corte del sultano, maestro Oliva, maestro Cicogna, maestro Farfalla e maestro Raffinato Effendi con i loro conflitti, i delitti, l’amore fraterno e la competizione incarnano la fine del mondo della miniatura.

L’omicidio di Maestro Raffinato Effendi darà il via a una serie di eventi, tra cui il rientro a Istanbul del Maestro Nero, che dopo dodici anni di perenigrazioni alla corte dello scia di Persia, tornerà per risolvere il delitto per conto del sultano. Le sue indagini lo porteranno ancora una volta nella casa della donna amata, Seküre, ormai vedova e madre di due figli, Seküre la donna che ho odiato di più dell’intera letteratura contemporanea: volubile, egoista, bellissima e altera, dio solo sa come questa capricciosa e confusa donna sia una delle protagoniste del romanzo. E tuttavia spesso è suo il punto di vista che governa la narrazione, suo e di suo figlio minore, così negletto e trascurato e che porta lo stesso nome del romanziere, Orhan. Sarà infatti Orhan molti anni dopo a tracciare un affresco di queste vicende, dando voce in ogni capitolo a un miniaturista diverso, per guardare il disegno nel suo insieme ma anche tramite lo stile o la voce peculiare di un maestro miniaturista.

Il disagio che emerge nella narrazione e che è alla base dei conflitti raccontati sta proprio nel diritto ad avere o meno uno stile, un’identità, o se invece averne una rappresenti l’estrema bestemmia agli occhi di dio: come è possibile insomma conciliare l’Uno e i molti, paradosso chiave della filosofia dai tempi del Parmenide di Platone, riemerge qui come emblema del crollo di una civiltà nel suo incontro con l’altro, con l’Occidente, conflitto incarnato non solo dai personaggi ma della stessa Istanbul, a metà, come un ponte tra Europa e Asia. È davvero possibile per un miniaturista disegnare in maniera impersonale, entrando nel flusso della continuità dell’eredità storica e artistica dei suoi predecessori? È un difetto avere uno stile, una propria visione del mondo, che si discosta dalla conformità della miniatura, che è il mondo visto dalla prospettiva di Allah? Condividere lo stile dei maestri europei significa contaminarsi, diventare impuri, colpevoli di aver rinunciato alla propria identità?

“…diceva che la prospettiva era una perversione diabolica perchè portava il disegno dallo sguardo di Allah a quello di un cane per strada, e poi l’utilizzo dei metodi dei maestri europei e il confronto tra la nostra sapienza, le nostre abilità e le abilità e i metodi degli infedeli, ci avrebbe privato della purezza e ci avrebbe resi loro schiavi».

«Non c’e’ nulla di puro, – disse Zio Effendi. – Ogni volta che nella miniatura o nel disegno si creano meraviglie, ogni volta che in un laboratorio viene prodotta una qualche bellezza che fa venire le lacrime agli occhi e i brividi, so che lì si sono avvicinate due cose diverse che unendosi hanno creato una nuova meraviglia”.

Pamuk alla fine sembra propendere per un sincretismo che superi le apparenti conflittualità, non come mera somma delle parti, ma come presenza che oltrepassa i confini delle singolarità, poiché: “ad Allah appartengono Oriente ed Occidente”.

Stefano Lilliu

di Orhan Pamuk (Autore) M. Bertolini (Traduttore)

S. Gezgin Hanife (Traduttore) Einaudi, 2014

La stranezza che ho nella testa – Orhan Pamuk #OrhanPamuk

STRANEZZA

Leggere Pamuk è viaggiare. Dentro al come dell’essere uomini e donne, farciti di sentimenti e ambizioni, aspirazioni e limiti, amori e dolore; dentro alla geografia dell’essere famiglia, qualsiasi cosa questo abbia voglia di significare; dentro ai luoghi, fatti da chi li abita, sempre; dentro alla storia e alle sue sfumature di cicli e presunzioni, qualsiasi mare si stia guardando dalla terrazza da cui ce la raccontano; dentro ai quartieri di Istanbul, alle sue contraddizioni, alla sua straordinaria bellezza.
Leggere Pamuk è entrare in con-tatto. Con la fede e come morde ai fianchi, come placa, come innalza, quanto spoglia e ricuce e lascia che le si chieda. Con l’assenza di risposte, per tutti sempre le stesse domande e la stessa sorda, impietosa, gioiosa assenza di risposte. Con ciò che sentiamo, temiamo diverso (troppo), per impararci dentro l’identico afflato a lenire la solitudine.
Mevlut è un uomo mite. Il protagonista di questo romanzo è un uomo mite, che mangia il suo mondo perché non può farne a meno. Lo mangia con gli occhi, camminandolo, indagandolo, lasciandolo lì a spiovere malinconia sul tempo e sulle cose. Lo mangia amando interamente, intensamente, lottando contro la miseria e facendolo miseramente, ma con ingordigia. Onesto, retto, fiero. Umile e pellegrino di una modernità che lo lascia tradito eppur sognante. Fallire e crescere: ecco cosa sempre gli accade. Fallisce e cresce, va avanti, ascolta in silenzio e non dimentica, non dimentica mai nulla.
Mevlut lo tradiscono, e gli amici e la sera. Rayiha invece lo ama. Riamata. Come non si potesse fare altro.
Ringrazio chi, sapendo del mio amore per questo scrittore, mi ha immediatamente regalato l’ultima sua fatica. Ringrazio perché in questo tempo di poco tempo da dedicare alle cose che salvano, queste pagine hanno saputo salvarmi un pezzettino di cuore e anche un paio di costole.

Rob Pulce Molteni

DESCRIZIONE

Un ragazzo ama una ragazza. Tutte le storie, anche quelle piú complicate, nascono da questa semplice, universale premessa. Mevlut l’ha incontrata una sola volta: i loro sguardi si sono incrociati di sfuggita al matrimonio di un parente a Istanbul. Eppure è bastato quell’attimo di perfezione e felicità a farlo innamorare. Süleyman, il cugino, gli ha detto che delle tre figlie di Abdurrahman, quella che ha visto Mevlut, quella di cui si è innamorato, è senz’altro Rayiha. Da allora non l’ha piú rivista ma, per tre anni, Mevlut le scrive le lettere piú appassionate che il suo cuore riesce a creare. Finché un giorno capisce che l’unico modo di coronare il suo sogno è scappare con Rayiha, di fatto rapendola dalla casa paterna in cui è rinchiusa. Cosí, una notte di tempesta, mentre Süleyman aspetta con un furgone in una strada poco lontana, Mevlut e la sua amata si riuniscono. Nulla potrà andare storto ora, nulla potrà piú dividerli, pensa lui. Poi un lampo illumina la scena e rivela il volto di Rayiha: quella non è la ragazza a cui Mevlut ha creduto di scrivere per tutto quel tempo, non è la ragazza di cui si è innamorato a prima vista tre anni prima! Chi ha ingannato Mevlut? E come si comporterà ora il nostro eroe? Questa è la sua storia, caro lettore: la storia di Mevlut Karataþ, venditore di boza (la bevanda, leggermente alcolica, tipica della Turchia), lavoratore indefesso, inguaribile ottimista (qualcuno direbbe ingenuo), sognatore, profondo conoscitore delle strade e dei vicoli di Istanbul. Perché questa è anche la storia di una città e del tempo che l’attraversa, una saga grandiosa e potente degli individui e delle famiglie che lottano, si alleano, si amano e si dividono per trovare il proprio posto nel mondo. Il premio Nobel Orhan Pamuk ha fatto della sua città, Istanbul, il personalissimo teatro in cui mettere in scena l’universale dei destini umani. Con La stranezza che ho nella testa ha saputo scrivere un romanzo rutilante in cui le storie piccole di uomini e donne comuni hanno la forza irresistibile della Storia di tutti.