Aldo Cazzullo – La guerra dei nostri nonni

aldo

Doveva essere il primo di questo 2016, ma il marito me l’ha sottratto a tradimento, lasciandomi con questioni più fantasy da affrontare.
Non voglio recensirlo, non è nemmeno un libro vero e proprio. È più una raccolta, un lungo elenco di aneddoti e testimonianze, che mi ha fatto provare nostalgia per quei nonni (a me bisnonni) ormai tutti spariti dalla faccia della terra e per le mie montagne, qui fuori, serene e maestose oggi, dilaniate e massacrate in quegli anni terribili, su cui così tante volte ho passeggiato incurante e un po’ sfrontata, correndo in cunicoli che parevano divertenti diversivi al sentiero e nascondendomi negli anfratti delle trincee deserte.
Dimenticheremo. Perdonatemi se lo dico, ma oggi mi sembra semplicemente e ineluttabilmente così. Mi piange il cuore pensarlo. E un po’ mi vengono in mente anche i miei, di nonni, che del secondo grande conflitto non mi hanno mai voluto parlare, anch’essi ormai sepolti, memoria persa di anni a noi in realtà ancora vicini, che della storia con la esse minuscola e maiuscola hanno cambiato tutto, destinati a loro volta a sbiadire forse anche solo per comprensibile necessità di sopravvivenza.

Sullo stesso argomento, per chi interessato, segnalo il molto più tecnico, dettagliato e pesante ma veramente esaustivo e avvincente “La grande guerra” di Isnenghi e Rochat.

Sara De Paoli

DESCRIZIONE

La Grande Guerra non ha eroi. I protagonisti non sono re, imperatori, generali. Sono fanti contadini: i nostri nonni. Aldo Cazzullo racconta il conflitto ’15-18 sul fronte italiano, alternando storie di uomini e di donne: le storie delle nostre famiglie. Perché la guerra è l’inizio della libertà per le donne, che dimostrano di poter fare le stesse cose degli uomini: lavorare in fabbrica, guidare i tram, laurearsi, insegnare. Le vicende di crocerossine, prostitute, portatrici, spie, inviate di guerra, persino soldatesse in incognito, incrociano quelle di alpini, arditi, prigionieri, poeti in armi, grandi personaggi e altri sconosciuti. Attraverso lettere, diari di guerra, testimonianze anche inedite, “La guerra dei nostri nonni” conduce nell’abisso del dolore. Ma sia le testimonianze di una sofferenza che oggi non riusciamo neppure a immaginare, sia le tante storie a lieto fine, come quelle raccolte dall’autore su Facebook, restituiscono la stessa idea di fondo: la Grande Guerra fu la prima sfida dell’Italia unita; e fu vinta. L’Italia poteva essere spazzata via; dimostrò di non essere più “un nome geografico”, ma una nazione. Questo non toglie nulla alle gravissime responsabilità, che il libro denuncia con forza, di politici, generali, affaristi, intellettuali, a cominciare da D’Annunzio, che trascinarono il Paese nel grande massacro. Ma può aiutarci a ricordare chi erano i nostri nonni, di quale forza morale furono capaci, e quale patrimonio portiamo dentro di noi.

La frontiera – Alessandro Leogrande

frontiera

“…Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di rccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi.
Ascoltare dalla voce di chi ha oltrepassato i confini come essi sono fatti.
Come sono fatte le città e i fiumi, le muraglie e i loro guardiani, le carceri e i loro custodi, gli eserciti e i loro generali, i predoni e i loro covi. Come son fatti i compagni di viaggio, e perché – a un certo punto – li si chiama compagni.
Come sono fatte le barche.
Come sono fatte le onde del mare.
Come è fatto il buio della notte.
Come sono fatte le luci che si accendono nell’oscurità.
Quelle voci…sovente si infervorano. E allora gli occhi si sgranano e le bocche si torcono per afferrare le sillabe che compongono la parola da cui tutte le altre discendono. E ogni volta che viene pronunciata, il mondo nuovo si affretta a venire mentre quello vecchio scompare lentamente. Quella parola indica una linea lunga chilometri e spessa anni. Un solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano, si inseguono, si accavallano, si contraddicono, si comprimono, si dilatano.
E’ la frontiera…
Di qua c’è il mondo di prima. Di là c’è quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai.”

Quanta storia, quante storie non so. Quante non ci vengono raccontate. Quante non andiamo a cercare. Restare attenti, restare all’erta, dubitare e farsi domande. Forse potremmo fare dell’altro ma intanto questo è un primo piccolo passo.

“Quanta sofferenza. Quanto caos. Quanta indifferenza. Da qualche parte nel futuro, i nostri discendenti si chiederanno come abbiamo potuto lasciare che tutto ciò accadesse”.

lazzìa

DESCRIZIONE

C’è una linea immaginaria eppure realissima, una ferita non chiusa, un luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente, è parte: è la frontiera che separa e insieme unisce il Nord del mondo, democratico, liberale e civilizzato, e il Sud, povero, morso dalla guerra, arretrato e antidemocratico. È sul margine di questa frontiera che si gioca il Grande gioco del mondo contemporaneo. Questa soglia è inafferrabile, indefinibile, non-materiale: la scrittura vi si avvicina per approssimazioni, tentativi, muovendosi nell’inesplorato, là dove si consumano le migrazioni e i respingimenti, là dove si combatte per vivere o per morire. Leogrande ci porta a bordo delle navi dell’operazione Mare Nostrum e pesca le parole dai fondali marini in cui stanno incastrate e nascoste. Ci porta a conoscere trafficanti e baby-scafisti, insieme alle storie dei sopravvissuti ai naufragi del Mediterraneo al largo di Lampedusa; ricostruisce la storia degli eritrei, popolo tra i popoli forzati alla migrazione da una feroce dittatura, causata anche dal colonialismo italiano; ci racconta l’altra frontiera, quella greca, quella di Alba Dorata e di Patrasso, e poi l’altra ancora, quella dei Balcani; ci introduce in una Libia esplosa e devastata, ci fa entrare dentro i Cie italiani e i loro soprusi, nella violenza della periferia romana e in quella nascosta nelle nostre anime: così si dà parola all’innominabile buco nero in cui ogni giorno sprofondano il diritto comunitario e le nostre coscienze. Quanta sofferenza. Quanto caos. Quanta indifferenza. Da qualche parte nel futuro, i nostri discendenti si chiederanno come abbiamo potuto lasciare che tutto ciò accadesse.

Quella parola indica una linea lunga chilometri e spessa anni. Un solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano, si inseguono, si accavallano, si contraddicono, si comprimono, si dilatano.
È la frontiera.

Negli ultimi anni abbiamo assistito alla moltiplicazione e all’irrigidimento di nuovi confini nel nostro continente: l’idea di una confederazione libera e pacificata ha lasciato rapidamente il passo alla realtà di una fortezza ben custodita e facile preda ideologica delle nuove destre. Se c’è una colpa recente che l’Europa non potrà lavare facilmente, è questa. Avere condannato a morte decine di migliaia di persone (uomini, donne, bambini) per tenere ferme delle linee su una carta.

In tale ottica la frontiera diventa davvero un concetto chiave per comprendere la contemporaneità; un vero e proprio strumento di misurazione, come spiega l’autore: “La frontiera è un termometro del mondo. Chi accetta viaggi pericolosissimi in condizioni inumane, attraversando i confini che si frappongono lungo il suo sentiero, non lo fa perché votato al rischio o alla morte, ma perché scappa da condizioni ancora peggiori. O perché sulla sua pelle è stato edificato un mondo che gli appare inalterabile.”

Su questa base l’ossessione narrativa ed etica di Leogrande: se ci sono dei confini e ci sono intere masse che tentano di attraversarli, spesso invano, la necessità primaria è “oltrepassare la categoria di ‘vittima’, che non spiega niente della complessa vita degli esseri umani. Provare a dipanare i fili di eventi che a prima vista paiono incomprensibili nel loro ginepraio di violenza, lutti, oppressione, che pure determina la vita di tanti.”