Il senso di una fine, Julian Barnes

Il senso di una fine – Julian Barnes – 2011, pag. 150

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La storia di un uomo, la sua evoluzione, o anche involuzione, non è detto. I sogni di un ragazzo, le certezze, la spavalderia, anche, la sicurezza che certe cose si faranno, certi obiettivi si raggiungeranno, e tutto sarà meglio di quanto han fatto i propri genitori. Ma Tony è un ragazzo come tanti, e poi diventerà un uomo, come tanti. Un “medio”. Non eccellerà in nulla, non guiderà, ma si lascerà guidare. Senza rimorsi, però, ma con accettazione pacata. Il tempo che scorre, è il Padrone assoluto:

“Viviamo nel tempo; il tempo ci forgia e ci contiene, eppure non ho mai avuto la sensazione di capirlo fino in fondo. Non mi riferisco alle varie teorie su curvature e accelerazioni né all’eventuale esistenza di dimensioni parallele in un altrove qualsiasi. No, sto parlando del tempo comune, quotidiano, quello che orologi e cronometri ci assicurano scorra regolarmente: tic tac, tic toc. Esiste al mondo una cosa più ragionevole di una lancetta dei secondi? Ma a insegnarci la malleabilità del tempo basta un piccolissimo dolore, il minimo piacere. Certe emozioni lo accelerano, altre lo rallentano; ogni tanto sembra sparire fino a che in effetti sparisce sul serio e non si ripresenta più”.

Quando l’età adulta arriva, nascono i dubbi, le incertezze, all’improvviso può arrivare un episodio che ci costringe a guardare indietro, a capire se, come e dove abbiamo sbagliato o potevamo far meglio. Svanisce quella certezza di aver capito tutto, quella certezza che le nostre parole e le nostre azioni fossero fine a se stesse, e invece magari possono aver deciso non solo il nostro destino ma anche quello altrui.

“Quel che si finisce per ricordare non sempre corrisponde a ciò di cui siamo stati testimoni”.

La maggioranza delle vite si svolge così, senza infamia e senza lode, si sopravvive, ci si adatta a persone, fatti, circostanze. La routine. La vita è “nascita, copula e morte”. Ma, appunto, a volte il passato torna e ci costringe a rivedere il quadro che ne avevamo dipinto.
Barnes ha la capacità di farti sempre sentire in attesa di ciò che può accadere, le pagine si voltano con questo senso di attesa. Fino ad un finale sorprendente, ma nello stesso tempo frettoloso, per alcuni può anche risultare deludente, senz’altro.
Ma è un libro che fa riflettere, una specie di saggio sulla vita, più che un romanzo vero e proprio. Un libro che può metterci in discussione, se ovviamente abbiamo voglia di farlo.
Ti lascia il senso di amaro in bocca, e fa traballare le certezze. Io non ho traballato, mi ci sono ritrovato, ma non credo sia meglio. Essere ottusi, essere arrendevoli, essere accomodanti, anche vigliacchi, attenua il senso di fallimento, ci difende da esso. Ma con la vita ci si fa i conti, prima o poi. E la vita corre, forse il senso è questo, tutto fugge via prima che ci possiamo capire qualcosa e dargli un senso. Molto amaro, molto disincantato, e anche molto ironico, però. Spesso ho sorriso, in mezzo all’amarezza. Bisogna avere qualche annetto sul groppone, secondo me, per entrare in questo romanzo e capirlo, almeno un po’. Capire quel concetto di “accumulo”:
«Scommetti su una relazione, non funziona; vai alla successiva, e non funziona neanche quella; forse non perdi solo la somma di due sottrazioni, bensì un multiplo di quanto avevi puntato. L’impressione è questa, comunque. La vita non è solo fatta di somme e sottrazioni. C’è anche l’accumulo, la moltiplicazione delle perdite, dei fallimenti».

La vita come un giallo, ci sono sempre nuovi indizi per capire quello che è successo, dargli nuove interpretazioni.
Il senso della fine è questo. «C’è l’accumulo. C’è la responsabilità. E al di là di questo, c’è il tempo inquieto. Il tempo molto inquieto».

Oh, però voi lottate eh, non vi fate trasportare, siate nocchieri!! :))

Carlo Mars

Il senso di una fine – Julian Barnes

La mia ragazza si chiamava Veronica Mary Elizabeth Ford, informazioni (mi riferisco al secondo e terzo nome) che impiegai due mesi a estorcerle. Studiava spagnolo, amava la poesia e suo padre era un funzionario. Un metro e sessanta circa, polpacci forti, capelli castano chiaro lunghi fino alle spalle, occhi grigioazzurri dietro un paio di occhiali dalla montatura azzurra, e un sorriso veloce che non ti lasciava piú andare. La trovavo simpatica. Beh, quasi certamente l’avrei pensato di qualunque ragazza che non mi evitasse. Non provai neanche a dirle che mi sentivo un po’ giú perché non era vero. Aveva un giradischi Black Box (contro il mio Dansette) e gusti musicali migliori dei miei; vale a dire che disprezzava Dvořák e Čajkovskij, che io adoravo, e possedeva alcuni lp di corali e di Lieder. Passava ogni tanto in rassegna la mia collezione di dischi intervallando qualche sorrisetto fugace e una assai piú frequente espressione delusa. Il fatto di avere nascosto sia l’ouverture 1812 sia la colonna sonora di Un uomo, una donna non bastò a salvarmi. Trovò abbastanza materiale di dubbio gusto anche prima di raggiungere la mia vasta raccolta di musica pop: Elvis, i Beatles, i Rolling Stones (e fin qui, nessuno avrebbe trovato nulla da eccepire), ma anche gli Hollies, gli Animals, i Moody Blues e un doppio di Donovan (definito, in caratteri minuscoli, in copertina, il dono di un fiore a un giardino).

– Questa roba ti piace? – mi chiese con voce impassibile.

– Va bene per ballare – risposi, un po’ sulla difensiva.

– Perché, balli quando l’ascolti? Qui? In camera tua? Da solo?

– No, non proprio – Ovviamente lo facevo, invece.

– Io non ballo – disse lei, a metà fra l’antropologa e la responsabile del regolamento di ogni possibile nostro rapporto, qualora fossimo usciti insieme.

Sarà meglio che spieghi il significato dell’espressione «uscire insieme» di allora, perché poi il tempo l’ha modificato. Di recente mi è capitato di parlare con una donna la cui figlia le aveva confidato la propria angoscia. Era al secondo semestre di università e andava a letto con un ragazzo che nello stesso periodo era andato a letto con numerose altre ragazze, in modo esplicito e senza sotterfugi. Il suo obiettivo era selezionarle tramite audizione per poi decidere con quale «uscire». La figlia si diceva sconvolta, non tanto per il sistema – pur intuendone almeno in parte l’iniquità – ma perché alla fine non era risultata lei la prescelta.
Il racconto mi fece sentire come il superstite di una cultura obsoleta e anacronistica, i cui membri utilizzassero ancora rape rosse intagliate al posto della valuta. Ai «miei tempi» – benché non abbia mai vantato diritti d’autore sull’epoca, e meno che mai mi sogni di farlo ora – di solito succedeva cosí: conoscevi una ragazza, lei ti piaceva, cercavi di ingraziartene i favori, la invitavi in un paio di luoghi di incontro – che so io, un pub –, poi le chiedevi di trovarvi da soli, poi glielo chiedevi di nuovo e, dopo un bacio della buonanotte di intensità passionale variabile, potevi ufficialmente dichiarare che «uscivi» con lei. Era solo dopo aver preso un impegno pressoché pubblico che ti era dato di scoprire la sua posizione in materia di comportamento sessuale. Il che qualche volta significava avere a che fare con un corpo protetto come una riserva di pesca esclusiva.
Veronica non era molto diversa dalle altre ragazze di allora. Si mostravano fisicamente disinvolte, ti prendevano sottobraccio in pubblico, ti baciavano da toglierti il fiato, potevano addirittura premerti volutamente addosso il seno, a patto che restassero almeno cinque strati di stoffa tra pelle e pelle. Erano perfettamente consapevoli di quanto accadeva frattanto nei tuoi pantaloni, pur non parlandone mai. E questo era tutto, per un bel po’ di tempo.

“Certe ti concedevano qualcosa di piú: si sentiva di alcune disposte alla masturbazione reciproca e di altre che ti lasciavano fare «sesso completo», come si diceva allora. Non si era in grado di apprezzare l’importanza di quell’aggettivo «completo», se non si aveva avuto parecchia esperienza del suo contrario, vale a dire dell’incompleto. Infine, con il progredire del rapporto, si verificava una serie di implicite contrattazioni, alcune fondate sul capriccio, altre su impegni e promesse, fino a ciò che il poeta ha chiamato «la lotta per un anello».
Le generazioni successive potrebbero essere inclini a ricercare la causa di tutto nella religione o nel moralismo. Ma le ragazze – o le donne – con le quali ho avuto esperienze di ciò che si potrebbe definire sesso per interposita lana (sí, non c’è stata soltanto Veronica) erano a proprio agio con il loro corpo. Nonché, fatti salvi alcuni principî, anche con il mio. Non intendo suggerire, intendiamoci, che l’interposita lana non fosse eccitante, o che risultasse frustrante, se si esclude l’accezione letterale del termine. Inoltre, quelle ragazze si concedevano assai di piú delle loro madri, e io ottenevo piú di quanto avesse avuto mio padre. O almeno, cosí presumevo. E qualsiasi cosa era sempre meglio di niente. Non fosse che, nel frattempo, Colin e Alex si erano sistemati con ragazze la cui linea di condotta non prevedeva alcuna zona-tabú, o cosí le loro allusioni lasciavano supporre. Del resto, nessuno diceva la verità in fatto di sesso. E sotto questo aspetto non è cambiato nulla. “