L’airone – Giorgio Bassani #giorgiobassani #recensione

“Come diventava stupida, ridicola, grottesca, la vita, la famosa vita…E come ci si sentiva bene, immediatamente, al solo pensiero di piantarla con tutto quel monotono su e giù di mangiare e defecare, di bere e orinare, di dormire e vegliare, di andare in giro e stare, in cui la vita consisteva!”

L’ airone – Giorgio Bassani

Editore: Feltrinelli

Credo sia impossibile parlare di questo libro tacendo la fine che pur se intuita già dalle prime pagine, diventa segno e significato di tutta l’opera.
Si narra una giornata, l’ultima (forse), di Edgardo Limentani, un proprietario terriero -ebreo- ferrarese, disorientato dall’essere sopravvissuto in un tempo in cui quelli come lui dovevano morire, annoiato dalla vita familiare, che gioisce anche per un sol giorno non trascorso in quella quotidianità. Per quel giorno ha organizzato una battuta di caccia in “botte “sulle rive di un fiume e tutte le azioni compiute e gli incontri avvenuti nell’arco di quelle ore, non sono altro che conferme della mancanza di senso che ormai pervade la sua vita. Solo l’idea di cristallizzare definitivamente la sua vita (come quella degli aironi impagliati nella vetrina di Codigoro) lo porta a provare sollievo.

L’ambigua realtà del presente, l’opportunismo politico, i tradimenti coniugali, la cupidigia economica da cui si vede assediato vengono osservati dal protagonista come attraverso una spessa lastra di vetro, che lo difende e insieme lo separa da tutto. La sua inestinguibile malinconia raccontata senza l’enfasi di gesti rabbiosi o disperati, senza fughe lontano o scelte di rottura, solo un giorno e una notte di allontanamento dal consorzio umano, spingendosi nelle nebbie familiari del delta del Po.

Come erano tranquilli e beati gli altri, tutti gli altri! – tornava a ripetersi, riabbassata la testa sul piatto –. Come erano bravi a godersi la vita! La sua pasta si vede era diversa, inguaribilmente diversa, da quella della gente normale che una volta mangiato e bevuto non bada che a digerire. Accanirsi a mangiare e a bere a lui non sarebbe servito, no. Quando dopo l’antipasto avesse trangugiato anche il resto, il rombo lesso, il gorgonzola, l’arancia, il caffè, sarebbe ricascato in pieno a ruminare sulle sue solite cose, le vecchie e le nuove. Le sentiva in agguato, già pronte a saltargli addosso come prima, come sempre: e tutte quante insieme.

L’idea di questo romanzo a Bassani era venuta nell’immediato dopoguerra, a seguito del suicidio di un suo amico. Fu pubblicato nel 1968, e durante questo periodo Bassani maturò una forte apatia per un mondo che era cambiato e in cui, finiti gli ideali, si sentiva perduto nell’oggettività dei significati che toglieva valore all’individuo e alla parola stessa.
Più che essere un romanzo di denuncia sociale e politica, “L’airone” è un romanzo esistenzialista e autobiografico, con cui l’autore riesce a riappropriarsi della coscienza e risolvere letterariamente il suo reale.
L’agonia dell’airone ucciso è metafora della banale esistenza di Edgardo e l’incapacità di sparare un colpo nell’intera battuta di caccia è specchio della sua incapacità di vivere.
Ma non è un romanzo triste, a volte riesce ad essere ironico e beffardo e la bellezza contenuta in certi brani descrittivi ha l’ampiezza delle ali di un airone.

“…gli riusciva anche più facile immedesimarsi negli animali imbalsamati…Come diventava stupida, ridicola, grottesca la vita, la famosa vita, a guardarla dall’interno di una vetrina di imbalsamatore! E come ci si sentiva bene, immediatamente, al solo pensiero di piantarla con tutto quel monotono su e giù di magiare e defecare, di bere e orinare, di dormire e vegliare, di andare in giro e stare, in cui la vita consisteva.”

Premio Campiello 1969

Egle Spanò

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Giorgio Bassani – Il giardino dei Finzi-Contini #giorgioBassani @nellogiovane69

Da molti anni desideravo scrivere dei Finzi-Contini – di Micòl e di Alberto, del professor Ermanno e della signora Olga – e di quanti altri abitavano o come me frequentavano la casa di corso Ercole I d’Este, a Ferrara, poco prima che scoppiasse l’ultima guerra. Ma l’impulso, la spinta a farlo veramente, li ebbi soltanto un anno fa, una domenica d’aprile del 1957.

Una lacuna che dovevo colmare. Non credevo, francamente, che potesse colmarmi a sua volta di tanta bellezza.

Dunque. Secondo me il miracolo di Bassani in questo romanzo è aver saputo imbastire un melò misurato, palpitante ma credibile, calligrafico fino al dettaglio e perciò umano, immergendolo nella Storia e nell’imminenza della tragedia. Di Storia e tragedia parlarci, quindi, ma da una prospettiva antiretorica, letteraria, capace di arrivare al cuore senza filtri ideologici e con tutte le impurità di una narrazione che non prende posizione ma te lo chiede con la pura forza – appunto – del narrare.

«Si capisce», rispose. «I morti da poco sono più vicini a noi, e appunto per questo gli vogliamo più bene. Gli etruschi, vedi, è tanto tempo che sono morti» – e di nuovo stava raccontando una favola –, «che è come se non siano mai vissuti, come se siano sempre stati morti».
[…] toccò a Giannina impartire la sua lezione.
«Però adesso che dici così», proferì dolcemente, «mi fai pensare che anche gli etruschi sono vissuti, invece, e voglio bene anche a loro come a tutti gli altri».

La cornice di prologo ed epilogo sono le colonne dell’architrave, la cui sommità è il realismo prima che la storicizzazione, la disponibilità della memoria a farsi affresco, pur concentrandosi nello spazio intimo, quasi raccolto, del tormento esistenziale e sentimentale del protagonista. Le vicende della fine degli anni Trenta (le leggi razziali, i venti di guerra) permeano il vissuto, sono una perturbazione della normalità che non la rendono meno normale, salvo portare a lacerazioni improvvise nel tessuto delle consuetudini, soffocando progressivamente (persino fisicamente) l’orizzonte delle aspettative e rendendo infine evidente lo scivolare nella catastrofe. Tutto è perduto, quindi niente è perduto: la frase di Stendhal inoltrata alla bella, brillante e indipendente Micòl nel disperato tentativo di ricucire un amore mai realmente sbocciato, è il monito che pervade il libro in ogni sua pagina. Non c’è scampo dalla memoria. No, non c’è scampo. E dimenticare può essere – è – una specie di condanna.

Era il ‘nostro’ vizio questo: d’andare avanti con le teste sempre voltate all’indietro.

Stefano Solventi