(Bollino: consigliato da Sartorati bello)
La caduta è la storia di un bambino nato con una paralisi cerebrale causata dalla negligenza di un medico durante il parto. Suo padre, Diogo Mainardi, scrittore e giornalista brasiliano, racconta la storia di questo bambino, Tito, suo figlio.
Ora io giassò che nel momento in cui ho detto bambino=paralisi cerebrale, vi sono scattate in testa tutta una serie di immagini e frasi di circostanza su libri di questo tipo: poverino, pietà, coraggio, amore, lacrime, nonostante tutto, polpettone, teniamo botta.
E vi sbagliate proprio, perchè la storia Tito non è uguale a nessun’altra, eppure lo è. E’ circolare.
Innanzitutto, è un libro molto poco triste: si ride molto, e si piange pochissimo. E mai per Tito. C’è poca amarezza, niente sentimentalismo, e tanta storia.
Diogo vede per la prima volta suo figlio mentre giace in un’incubratrice, tra la vita e la morte. E riflette che fino a quel momento aveva sempre pensato che se suo figlio fosse stato condannato allo stato vegetativo, lui da padre avrebbe sperato che morisse, per il suo bene, in fondo, si dice sempre così no? Sta meglio da morto. Ma quando lo vede, dopo quel primo contatto, tutto cambia. “Ero solo un padre e volevo che mio figlio sopravvivesse, perchè l’avrei amato e accudito in qualsiasi modo”. E così è stato. I primi tempi sono stati duri, ma solo perchè lui e sua moglie e Tito non si capivano, non comunicavano. Poi è successo qualcosa. Sua moglie Anna è caduta inciampando in un tappeto, e Tito si è messo a ridere, come suo padre. Anche sua madre, da terra, rideva. “La comicità da Gianni e Pinotto era un linguaggio che capivamo tutti. Tito cade. Mia moglie cade. Io cado. Ciò che ci unisce- che ci unirà sempre – è la caduta”.
Da qui, inizia il cammino di Tito, che non è normale, certo che no: non è un bambino normale, in fondo. E’ meglio.
E’ la storia dei primi dieci passi che Tito riesce a fare senza cadere (perchè poi cade, cade sempre), e poi dei primi venti, e poi dei primi cento. E’ un libro costruito tutto sulla caduta e sui passi, sulla possibilità di camminare. Perché Tito lotta ogni giorno per fare un passo dietro l’altro senza cadere. Si tratta di arrivare a fare 424 passi uno dietro l’altro, come una conquista, come fosse scalare l’Everest. E mentre Tito cammina, e cade, e ride, cade sempre, ma ride sempre, suo padre ci spiega senza patetismi e senza nessun “poverino” come questo suo figlio così poco normale sia anche un’accusa formidabile contro il cliché della «normalità», contro la stupidità umana che affiora nel mondo in tempi diversi e in modi sempre nuovi, nel mito del corpo perfetto o peggio nell’eugenetica nazista.
E’ un libro con una struttura strana, un po’ sbieca, come l’andatura del suo protagonista. Cotroneo nel suo blog ne parla incensandone la novità di scrittura, che in effetti spiazza: “Mainardi inventa una forma di romanzo che non esiste. Mette in comunicazione l’arte, la scrittura, il nazismo, la storia, la circolarità di Giovan Battista Vico. Unisce i fili delle cose. Racconta dell’amore per suo figlio e raccontando la sua storia racconta la storia.” ( http://robertocotroneo.me/2013/09/22/mainardi/ )
Tito, suo padre e in fondo tutti noi siamo catapultati in questo labirinto circolare che è la vita, con il solo profondo desiderio di essere amati per quello che siamo, senza patetismi.
E’ un libro molto bello, e molto allegro, come Tito, che ride sempre, perchè è normale, è amato senza riserve.

