Piccola Biblioteca Adelphi
Poi dissi duramente: – Stai dormendo. Bertha? Stai male? Perché non rispondi? – Mi alzai, mi avvicinai alla sua sedia e presi le sue mani fredde tra le mie. – Siamo rimasti qui anche troppo, è molto tardi.
– Vai tu – disse lei. – Io voglio restare qui al buio…al buio al quale appartengo – soggiunse.
Il prequel postmodernista e postcoloniale di Jane Eyre, che narra la storia della prima moglie di Rochester. Antoinette è una giovane creola che incarna il fascino e il mistero della natura selvaggia della Jamaica, figlia di un negriero inglese. Morto il padre, la madre si risposa con Mr Mason- padre di Rochester. Jean Rhys ci racconta in prima persona la sua infanzia turbata dall’isolamento, dall’odio e dal risentimento dei neri appena emancipati, verso una famiglia di ex schiavisti. La seconda parte del romanzo ci arriva attraverso le parole di un giovane Rochester (curiosamente il suo nome non viene mai fatto nel romanzo), immaturo e asservito alla volontà del padre. Al suo arrivo egli è, dapprima, inebriato dai suoni bisbigliati, dai colori lussureggianti e dagli odori invadenti della Giamaica, così come è sedotto da Antoinette. Ma in lei, come nella natura dell’isola, sente qualcosa di misterioso, di sinistro e ostile. Cerca di penetrate quel mistero, carpirne i segreti, la cambia nome, chiamandola Bertha, in un atto proprio del paternalismo coloniale, per farla sua, sentirla meno diversa. Ma così distrugge ancor più la sua individualità precaria, le nega il suo amore e la spinge in quel vortice di alienazione che culminerà nella soffitta in cui la ritroviamo in “Jane Eyre”. Plauso alla capacità di rendere i paesaggi ed il clima: la nota più vivida è questa sensazione di afa e annebbiamento, di oscurità e rumori e silenzi pervasivi.
Un romanzo breve ma potente, che getta nuova luce sul capolavoro della Bronte; in “Jane Eyre” siamo portati in qualche modo a giustificare Rochester perché vogliamo che la vicenda di Jane abbia il suo lieto fine. Ma qui niente può assolverlo dalla sua colpa; l’odio che giunge a provare per Antoinette e la sua terra deriva da un frustrato desiderio di possesso, che genera la prevaricazione e la violenza propri del maschilismo e del colonialismo.
Bevvi ancora un po’ di rum e, mentre bevevo, disegnai una casa in mezzo agli alberi. Una grande casa. Divisi in stanze il terzo piano e in una di queste disegnai una donna in piedi – uno scarabocchio infantile: un punto per la testa, un punto più grosso per il corpo, un triangolo per la gonna, delle linee oblique per le braccia e i piedi. Ma era una casa inglese.
Ford Madox Ford, che fu lo scopritore di Jean Rhys, scrisse, presentando il suo primo romanzo, che mostrava un istinto per la forma posseduto da rari scrittori, e quasi nessuna scrittrice, di lingua inglese. La Rhys raccontava in quegli anni storie amare, di quotidiana ferocia: l’ambiente erano la Rive Gauche, con le sue colonie di esuli anglosassoni, piccoli alberghi di Bloomsbury, bar, caffè e stanze mobiliate, palcoscenici di storie d’amore ricamate sulla desolazione. Ma col 1939 Jean Rhys scompare: i suoi libri si esauriscono, alcuni fedeli ammiratori continuano a ricordarli e a cercarli, di lei non si sa niente. Solo nel 1958 Jean Rhys è rintracciata in Cornovaglia. Infine nel 1966 viene pubblicato Il grande mare dei sargassi, la sua opera più matura: di straordinaria densità e tensione, questo libro è fra i pochi romanzi memorabili che abbia dato l’Inghilterra in questi ultimi anni e come tale è stato subito riconosciuto.
“I hated the mountains and the hills, the rivers and the rain. I hated the sunsets of whatever colour, I hated its beauty and its magic and the secret I would never know. I hated its indifference and the cruelty which was part of its loveliness. Above all I hated her. For she belonged to the magic and the loveliness. She had left me thirsty and all my life would be thirst and longing for what I had lost before I found it.”
Arianna Pacini