Bill Bryson – America perduta

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Arriva tardi per me questo libro, che per anni è stato su uno scaffale dei Consigliatissimo da Amici, arriva tardi e mi lascia un po’ diludendo, giungevo con aspettative altissime da almeno 5 stelle e secondo me arriva alle 2mmezzotrequarti rosicate ma alle 3 piene no. America perduta è la storia di un interminabile viaggio in macchina attraverso gli Stati Uniti, compiuto dall’autore alla ricerca in parte della propria giovinezza (all’epoca in cui scrive si è trasferito da molti anni in Inghilterra) e in parte del vero sogno americano: la cittadina perfettina con la chiesetta bianca, il negozio del barbiere con l’insegna che gira bianca blu e rossa e il drugstore in cui tutti si conoscono e ti salutano, che abbiamo visto in milioni di film e telefilm.

Durante questo viaggio, che spazia da grandi parchi nazionali a piccole attrazioni turistiche a orride pacchianate che possono essere definite solo e soltanto come americane, Bryson percorre miglia e miglia riflettendo su quanto i suoi connazionali siano in genere proprio come gli stereotipi li descrivono: stupidi, ignoranti, di mentalità ristretta e senza rispetto per la cultura. Offre ricordi della sua infanzia e una serie di aneddoti che dovrebbero veicolare con ironia e umorismo questo ritratto poco lusinghiero, e in genere ci riesce. Al tempo stesso però dopo tre, sei, dieci conversazioni con stupide cameriere e ottusi contadini, vien da chiedersi se non sia lui per primo uno di quegli americani di cui sopra, sempre a giudicare dopo neanche 5 minuti di dialogo, sempre a parlare di cose interessanti (storia dei luoghi, musei, parchi nazionali) che però lo annoiano, sempre a correre da un luogo all’altro senza mai fermarsi a riflettere cinque minuti in più su quello che ha visto, sempre a parlare incessantemente e a fare battute a volte onestamente penose. Per non parlare di aspetti come guidare senza consultare bene le mappe salvo poi lamentarsi che le strade in America sono indicate male, o a demonizzare la dieta americana mangiando lui per primo un sacco di schifezze come se per una sera fosse proibito cercare una bistecca ai ferri e un’insalata invece di mangiare caramelle e patatine fritte, o ancora di come si lamenti che piova sempre e trovi costantemente brutto tempo, come se muoversi a ottobre nel Nord America a 2oo miglia dal Canada non sia prevedibilmente foriero di freddo e pioggia.

Forse ho aspettato troppo io, forse è un libro da leggere quando si è giovani e il continente americano è ancora terra inesplorata o quasi, per noi: per cui quando lui ammicca o allude a qualche stupido errore o scema usanza locale ci si tuffa nel folklore e si dimentica il resto, perchè non si sa, e se non si sa si immagina. Se lo leggi per la prima volta alla mia età, dopo un certo numero di visite negli Stati Uniti, sai benissimo che l’America è tutto quello su cui lui sghignazza, ma è anche molto altro e di più.

C’è poi un altro aspetto che mi ha fatto faticare, ed è che è molto datato per certe descrizioni di posti. Non è colpa dell’autore ovviamente, ma quando parla di alcuni parchi nazionali da lui visti vagando praticamente allo sbando, e tu ricordi con precisione come invece siano organizzati e serviti in tutto adesso, quello di cui lui si lamenta non fa molto ridere, sembra il piagnisteo lontano di un bambino viziatello.

Infine, e forse è questo l’aspetto che più me l’ha fatto scadere, Bryson non ha rispetto per il viaggio in sè: arriva al Grand Canyon, aspetta venti minuti lamentandosi che c’è nebbia, il vento muove per trenta secondi la foschia quindi il paesaggio gli appare in tutta la sua maestosa grandiosità e lui risale in macchina felicissimo perchè si è depennato dal taccuino Visita al Grand Canyon in soli venti minuti.  Arriva allo Yellowstone, diretto all’Old Faithful ma un geyser più piccolo erutta e lui decide che oramai ha visto quello quindi non ha senso scarpinare un altro quarto d’ora per vedere quell’altro. Sfreccia sulle Highways nel New England invece di cercare le strade panoramiche e poi si lamenta del paesaggio monotono e ripetitivo di motel, diners e stazioni di servizio. Ogni sera in hotel accende la Tv e si lamenta dei brutti programmi su predicatori, televendite, dibattiti pietosi e telefilm sciatti, come se questo fosse uno dei motivi per cui la gente viaggia, e come se la televisione, in qualsiasi parte del mondo, sia una cosa di valido a prescindere. Apri un cazzo di libro, cribbio! Poi ovviamente critica tutto il tempo gli americani come popolo pigro e incolto. Boh.

Come dice Arianna nella recensione di un altro suo libro che ci è poco piaciuto, Neither here nor there (peregrinazioni in Europa): Bryson è un viaggiatore disorganizzato, sempre in ritardo e del tutto impreparato. Per questo si trova spesso in situazioni assurde che però sono riuscite solo di rado a distrarmi dalla noia di questa lettura.

Sono belle le parti sui dialetti e su alcune descrizioni delle popolazioni locali (contadini in Iowa, montanari in Tennesse) e i ricordi della sua infanzia:  le vacanze con la famiglia in macchina con il padre che sclerava, la madre che preparava panini e tovaglioli, lui e il fratello annoiati a morte sul sedile posteriore; il nonno e la nonna in campagna, i gelati e le torte, gli scherzi col fratello al cinematografo: davvero è l’America perduta questa, per tutti noi, non solo per lui. 

Penso che darò un’altra possibilità a qualche suo libro ma prima mi leggerò ben bene tutte le recensioni, paradossalmente tutti gli amici mi hanno detto che l’ultima produzione è sottotono, ma visto che questo libro è del periodo d’oro e non mi è piaciuto tanto proverò qualcosa di più recente!

Lorenza

 

 

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