Io amo moltissimo Paul Auster. Dalla Trilogia di New York alle follie di Brooklyn, da Mr Vertigo a quelle perle meravigliose che sono state le sceneggiature di Smoke e Blue in the face (in particolare la prima). Auster, però, è anche uno di quegli scrittori che producono a ciclo continuo, quasi compulsivo. Che sia il sacro fuoco dell’ispirazione o qualche contratto dorato con la casa editrice, questo non saprei dirlo. Sta di fatto che ogni tanto spuntano fuori lavori come que…sto. Non posso dire che non mi sia piaciuto: i temi cari ad Auster ci sono: l’avvicendarsi di note surreali tra realtà e sogno, di dolore e bisogno di sollievo, l’introspezione, l’impegno politico. Però non mi ha convinta, come una serie di storie abbozzate e mescolate tutte insieme senza un risultato fluido e gradevole. Eppure sembrava promettente: un anziano critico letterario costretto all’ invalidità e all’insonnia trascorre le notti immaginandosi storie dettagliatissime che gli permettano di arrivare al mattino senza soccombere al dolore e alla disperazione. In questo caso si immagina le vicende di Owen Brick alle prese con un’ America post Bush devastata dalla guerra civile. Mi è piaciuto questo passaggio nel quale il protagonista parla della figlia: “..in lei c’è qualcosa di ingenuo e fragile, e vorrei tanto che imparasse che le azioni abiette che gli esseri umani perpetrano gli uni contro gli altri non sono aberrazioni, ma una parte essenziale di quello che noi siamo. In questo modo soffrirebbe meno. Il mondo non le crollerebbe addosso ogni volta che succede qualcosa di negativo, e non si addormenterebbe ogni notte in lacrime.”
Anna LittleMax Massimino
