Lo shtetl perduto – Max Gross #MaxGross @EdizioniEO

Vincitore del National Jewish Book Award 2020.
Con sguardo ironico e profondo, Max Gross riporta in vita il rutilante microcosmo dello shtetl dell’Europa orientale, con le sue credenze, il suo chiacchiericcio in yiddish, la sua ingegnosità e resilienza – ma anche i dubbi e le paure davanti alla frastornante irruzione del progresso. Nell’incontro tragicomico tra Kreskol e l’evoluta società gentile, affronta un tema caro a molti scrittori ebrei americani: l’ineludibile legame tra Olocausto e modernità, e il suo lascito mai realmente elaborato dal mondo contemporaneo.

Un libro molto divertente, intelligente e ben raccontato. Moltissimi spunti e diverse idee geniali: non tutti sviluppati come avrebbero meritato. I personaggi tutti interessanti: a molti ci si affeziona ma purtroppo nessuno è davvero approfondito. Il romanzo, le vicende dei singoli e dello shtetl vengono condotte al finale a mio modo di vedere un po’ troppo a grandi linee.

Intendiamoci: non c’è nulla di men che bello da leggere, in questo romanzo, ma – dalla metà del racconto – la sensazione che l’autore avrebbe dovuto fare di più non abbandona.

(In quarta si accosta malamente il romanzo a due film che solo per ignoranza si possono avvicinare: Train de vie e La vita è bella. Avendo amato perdutamente il primo e odiato radicalmente il secondo, ci tengo ad avvertire che il romanzo è completamente intriso del dolce, malinconico, ironico umorismo yiddish di Train de vie, mentre non ha nulla a che spartire con la semplificazione gigionesca e moralistica fatta da Benigni)

Paola Borgonovo

di Max Gross (Autore) Silvia Montis (Traduttore) E/O, 2022

«La persistenza dell’antisemitismo dopo l’Olocausto è stato un tema ricorrente per gli scrittori americani, da Bernard Malamud a Philip Roth fino a Shalom Auslander. Gross si è guadagnato un posto in questa cerchia.» – USA Today

Da decenni lo shtetl ebraico di Kreskol vive in tranquillo isolamento in una selvaggia foresta della Polonia orientale, ignaro delle guerre che sconvolgono il mondo e del suo turbolento viavai. Un mattino però Pesha Lindauer, una giovane donna reduce da un burrascoso divorzio, scompare senza lasciare traccia. I rabbini e gli abitanti di Kreskol piombano nel panico: da centoundici anni nessuno oltrepassa i boschi che cingono la piccola città. I rabbini decidono allora di inviare un messaggero nella città di Smolskie per allertare le autorità e la pericolosa missione viene affidata al giovane Yankel, apprendista fornaio e mamzer – un figlio bastardo, ripudiato dalla comunità. Yankel riuscirà a raggiungere Smolskie sano e salvo – ritrovandosi catapultato in una città polacca del Ventunesimo secolo, con altissime torri scintillanti di vetro e acciaio, carri che sfrecciano senza cavalli e dipinti animati che mutano forma. E le sue disavventure porteranno di lì a breve al ritrovamento dello “shtetl perduto” – evaso dalla Storia, sfuggito per caso all’invasione nazista della Polonia e unico.

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Le carte della signorina Puttermesser – Cynthia Ozick #CynthiaOzick #recensione

Ma Puttermesser aveva un’altra teoria: era colpa sua. Era stata troppo sollecita nei confronti della giovane cugina, troppo deferente, troppo coscienziosa, troppo inadeguata e cerimoniosa. Oh, va bene così, non ci pensare. Lascia stare, faccio io. Non ti preoccupare, davvero, va benissimo così com’è. Quelle erano le strofe della litania di Puttermesser. Erano una formula magica, erano “buone maniere”.

Le carte della signorina Puttermesser – Cynthia Ozick

Traduttore: E. Malanga
Collana: Oceani

Cynthia Ozick è una scrittrice ebrea americana molto conosciuta e apprezzata in patria, e pochissimo da noi, infatti i suoi libri, se pur tradotti, sono pressoché introvabili. Questo romanzo, appunto, da noi appena uscito, è in realtà del 1997, e arriva da noi vent’anni dopo. La Ozik è scrittrice di culto, raffinata, strenua sostenitrice della lingua yiddish che ritiene sia stata nel tempo assassinata. Altre sue caratteristiche sono l’umorismo, il trascendente e il ricordo, seppure non struggente, dell’ebraismo dell’Est Europa.
Il suo interesse riguarda spesso l’universo degli ebrei appena arrivati in America.

Puttermesser è il cognome della protagonista; e si avvicina molto al tedesco Muttermesser, che indica il coltello in grado di tagliare solo il burro; una ambivalenza che sta per qualcosa di tagliente, ma che impatta con qualcosa di morbido come il burro, ambivalenza propria della protagonista ed è propria anche della lingua yiddish, dove ogni frase può avere più di un significato.

Incontriamo la signorina Ruth Puttermesser quando ha 34 anni, e la seguiamo fino alla morte alla soglia dei 70, in una biografia scandita in 5 parti. Figlia di un russo emigrato in America quando ancora regnava lo zar, sgobbona a scuola e lettrice accanita, si laurea brillantemente e trova impiego nella municipalità di New York,  dipartimento «Riscossioni e Pignoramenti» dove constata che «l’organismo bastava a se stesso» e «la burocrazia è un mondo feudale e avvizzito fatto di territori, autorità e gerarchie»
Ruth preferisce leggere Platone piuttosto che intrattenersi con Rappaport, un uomo sposato con cui ha una relazione poco entusiasmante.
Vorrebbe tanto avere una figlia, e così, mettendo in atto l’esperienza del rabbino di Praga che nel ‘600 diede vita a un golem, figura che serve a difendere dalle aggressioni, prontamente dà vita al primo golem femmina che la aiuterà a fare la scalata a sindaco della città di New York.
Da qui inizia un mondo fra l’assurdo e il paradossale, con episodi surreali e finemente umoristici, la realtà che diventa metaforicamente, allegoricamente e concretamente un magnifico, assurdo, incredibile avvincente disastro.

Un oceano sterminato di citazioni letterarie, riflessioni esistenziali anche profonde (dalla differenza tra desiderio e brama, al confine tra bene e male, fino alla critica del potere) espresse con leggerezza e grandi dosi di una certa letteratura surreale condita di motti di spirito imprevedibili. Un prontuario per tutti i Puttermesser di questo mondo, avidi studiosi e appassionati lettori, razionalisti e consapevoli del mondo che li circonda, critici fino a diventare caustici, pragmatici ma con dentro di sé gli alti orizzonti dell’ebraismo originario: pronti a infiammarsi per un’aspirazione, un desiderio puro da aspettative, sapendo in fondo già in partenza che se si trasformassse in realtà puntualmente e grottescamente ne verrebbero gabbati loro e i loro stessi aneliti.

Raffaella Giatti