“Sarebbe diventato l’allucinazione di Sarah. Avrebbe, nel senso più puro del termine, avverato i suoi sogni. Che cosa potrebbe offrire di più una persona che ama?”
Detesto in Coe quel suo modo di trascinarmi sul limite della letteratura di facile consumo, quella che ricorre senza indugio a espedienti melodrammatici in trame dall’ordito fin troppo studiato e forzoso nel volerti stupire. Salvo poi introdurre sempre quell’elemento di bizzarro e di umano che ti spiazza, ti fa capire che sei in una dimensione letteraria dove ogni cosa che accade mette il realismo al servizio dell’invenzione, forzando i confini in maniera funzionale e riuscendo nel piccolo (?) miracolo di non apparire pretestuoso. O, almeno, quasi mai.
A dire il vero in questo La casa del sonno accade più spesso che nella ben nota trilogia (di lui non ho letto altro). La vicenda di Robert, il modo in cui si incastra con quella di Sarah e nel complesso il personaggio di Gregory mettono a dura prova la “sospensione dell’incredulità”, ma la glassa chiaroscura di tensione sentimentale ed emotiva in cui tutto è immerso, assieme al sapiente ritmo alternato dell’ambientazione cronologica (cui si aggiunge la suddivisione in “fasi” che rimandano a quelle del sonno) e all’immancabile, a tratti irresistibile ironia, ne fanno una lettura coinvolgente.
Non si escludono interpretazioni più profonde, ovvero il problematico rapporto col sonno dei protagonisti come metafora dell’impossibilità di accettarsi come corpi, identità, ambizioni, sentimenti… “Nessuno dice bugie nel sonno” è in questo caso la frase emblematica. Anche se Coe non si fa problemi, come sappiamo, a buggerarli, gli emblemi.
Stefano Solventi
49/50 (conteggio corretto perché mi sono accorto di avere inserito due graphic novel, mannaggia)