Adesso mi arrendo e questo è tutto – Alvaro Enrigue #AlvaroEnrigue #Feltrinelli

Nel 1836 il tenente colonnello Zuloaga dell’esercito messicano va all’inseguimento di una banda di apache che, in una razzia, ha rapito una donna, Camila. Zuloaga mette assieme un male assortito drappello di improbabili reclute, di cui fa parte persino una falsa suora che risulterà la più abile nel maneggiare la pistola. La narrazione delle disavventure dell’intrepido quanto improvvisato manipolo a caccia di apache nel vasto territorio tra deserti e montagne, che allora apparteneva interamente al Messico, si alterna al racconto dell’autore che ripercorre quei luoghi ai nostri giorni, da entrambi i lati della frontiera Messico-Usa, ricostruendo la storia di un popolo che scelse di estinguersi pur di non lasciarsi assoggettare, e la vita del più celebre capo apache, Geronimo: un uomo che fu guerriero suo malgrado e sciamano per scelta e destino, saggio nelle decisioni quanto audace nelle azioni. Un avvincente romanzo storico sulla dignità posta al di sopra di qualsiasi convenienza pratica, compresa la propria sopravvivenza, che alterna i toni epici alle riflessioni su due società contrapposte – quella messicana e quella statunitense – entrambe incapaci di comprendere la diversità culturale di una nazione indigena che si era dotata di leggi, forme di governo e credenze religiose, estirpata per sempre da uno spietato genocidio.

Scrittore messicano (anche se vive tra America e Europa), che scrive un libro sugli indiani d’America, con una traduzione a cura di Pino Cacucci, direi che gli ingredienti sono ottimali.

Il titolo è un po’ fuorviante, perché il libro non è incentrato sulla figura di Geronimo da cui è preso il titolo del libro, ma sull’atto finale della tribù Chiricaua. Racconta con diversi personaggi, come si è giunti alla resa e al “salvacondotto” in Florida di Geronimo, Naiche e le famiglie rimaste insieme a loro. 27 guerrieri che proteggendo le loro famiglie, hanno seminato terrore senza mai essere sconfitti in battaglia a cavallo tra Stati Uniti e Messico, odiati e temuti da entrambi le popolazioni. L’autore usa uno stile in cui diverse storie, e diversi personaggi si intrecciano (compreso lui e la sua famiglia), per confluire tutti insieme in un finale di libro davvero appassionante.

Da appassionato di libri sugli indiani d’America (anche se ho sempre preferito le tribù delle grandi pianure), ho trovato il libro nella fase iniziale molto “slegato”, e in alcuni punti quasi forzato. Ma l’ultimo quarto del libro è una marcia travolgente che non permette di staccare gli occhi dalle pagine se non quando si è arrivati all’ultima.

Roberto Sensidoni

Adesso mi arrendo e questo è tutto

di Álvaro Enrigue (Autore) – Pino Cacucci (Traduttore)

Feltrinelli, 2021

Sanguina ancora – Paolo Nori #PaoloNori #romanzo #Dostoevskij

Tutto comincia con Delitto e castigo, un romanzo che Paolo Nori legge da ragazzo: è una iniziazione e, al contempo, un’avventura. La scoperta è a suo modo violenta: quel romanzo, pubblicato centododici anni prima, a tremila chilometri di distanza, apre una ferita che non smette di sanguinare. “Sanguino ancora. Perché?” si chiede Paolo Nori, e la sua è una risposta altrettanto sanguinosa, anzi è un romanzo che racconta di un uomo che non ha mai smesso di trovarsi tanto spaesato quanto spietatamente esposto al suo tempo.

«Come si suole dire, da Sanguina ancora emerge un ritratto inedito di Dostoevskij, solo che in questo caso è vero, e alcuni dettagli non possono non deliziare l’appassionato: su tutti un «cappello alla Zimmermann» che dalla realtà finisce in Delitto e castigo»Vanni Santoni, la Lettura

Che devo dire? quest’anno è iniziato benissimo, con la lettura di libri tutti diversi e tutti entusiasmanti. “Sanguina ancora” è un libro di Paolo Nori (di cui avevo già apprezzato “I russi sono matti”) che ripropone una formula molto congeniale all’autore e ai suoi oggetti narrativi. Si cimenta infatti a raccontare Dostoevskij usando la propria passione per lui come tramite, una passione molto carnale che investe la vita non solo intellettuale ma del tutto quotidiana di Nori, che in qualche modo è protagonista del libro non meno di D. stesso. Chi ha già letto qualcosa di Nori non può avere dimenticata la sua prosa peculiarissima, che si avvita su sé stessa in continui garbugli, anacoluti e riprese: una prosa geniale perché gestita benissimo e perché perfetta per uno stile narrativo fatto tutto di digressioni, frammenti che sembrano aver preso la tangente e invece, alla fine, tornano in picchiata sul punto di partenza. Il libro è pieno di spunti, aneddoti, momenti comici, ironia e affetto.

«Il senso di leggere Dostoevskij io non lo so, so che Dostoevskij, anche se non lo leggiamo, ci ha detto, nelle cose che ha scritto, come siam fatti prima ancora che venissimo al mondo (…) e ho avuto, me lo ricordo perfettamente, la sensazione che quella cosa che avevo in mano, quel libro pubblicato centododici anni prima a tremila chilometri di distanza, mi avesse aperto una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare. Sanguina ancora.»

Paola Borgonovo

Se da una parte Nori ricostruisce gli eventi capitali della vita di Fëdor M. Dostoevskij, dall’altra lascia emergere ciò che di sé, quasi fraternamente, Dostoevskij gli lascia raccontare. Perché di questa prossimità è fatta la convivenza con lo scrittore che più di ogni altro ci chiede di bruciare la distanza fra la nostra e la sua esperienza di esistere. Ingegnere senza vocazione, genio precoce della letteratura, nuovo Gogol’, aspirante rivoluzionario, condannato a morte, confinato in Siberia, cittadino perplesso della “città più astratta e premeditata del globo terracqueo”, giocatore incapace e disperato, marito innamorato, padre incredulo (“Abbiate dei figli! Non c’è al mondo felicità più grande”, è lui che lo scrive), goffo, calvo, un po’ gobbo, vecchio fin da quando è giovane, uomo malato, confuso, contraddittorio, disperato, ridicolo, così simile a noi. Quanto ci chiama, sembra chiedere Paolo Nori, quanto ci chiama a sentire la sua disarmante prossimità, il suo essere ferocemente solo, la sua smagliante unicità? Quanto ci chiama a riconoscere dove la sua ferita continua a sanguinare?