Francesca Marzia Esposito – La forma minima della felicità #laformaminimadellafelicità

“La precarietà ha una stabilità che la stabilità se la sogna”.

La forma minima della felicità- 8 aprile 2015

Questo libro è un abbraccio, uno di quelli che a tratti ti sembra di non volere, da cui cerchi di divincolarti, ma poi ti imprigiona, con la grazia e la furia di un’onestà caldissima e le parole ti ac-cadano addosso, dentro, di traverso, ovunque. Come è scritto! Con quale intelligenza dialettica ed emotiva! Quell’intelligenza che se non ti lasci amare dal suo gioco di scarti e fughe finisce per urticarti, per graffiarti la pelle, per lasciarti le labbra secche. Ma se ti ci abbandoni è un miracolo, il miracolo dei sensi colti in flagranza di reato e il reato è la vita, già, la vita, i suoi spigoli e le sue curve, gli abbandoni e i sassi, tutto il suo respirare simboli addosso al mondo fino a che al mondo, all’improvviso, viene voglia di decifrarli, di curarli, di liberarli.
Luce è una donna. Bambina è sua nipote. Le loro vite si incrociano mentre entrambe non hanno voglia che di tacere. Eppure parlano. E parla la solitudine, il tempo, la carne; parlano i profili delle cose, i colori messi (a pezzi, uno ad uno) a s-proposito addosso ai muri, le ossessioni, il dolore. Parla tutto. Parla il grigio, a momenti la sua voce è la più alta, la più prepotente. Parlano la fame e la sua assenza, i gesti trattenuti e le conseguenze dell’amore.
Ci sono due madri, un fratello, un miracolo (e ha un nome, grazie al cielo, è carne e ossa). C’è l’Ombra di un due che è diventato uno senza lasciare ossigeno al cambiamento. C’è Milano e in qualche modo è bellissima.
C’è la mia matita che chiede pietà: l’ho consumata ad appuntare asterischi ai bordi delle pagine.
Io me ne sono innamorata. E quindi magari ne parlo come si parla dei corpi che ti fanno tremare. Saprete perdonarmi, in caso, vero? A bientot.

rob pulce molteni

Luce vive barricata in casa, vegeta sul divano, mastica fette biscottate davanti a Canale 32, il canale mono-tematico di televendite perenni di anelli e bracciali. Ha perso il lavoro e l’appartamento 51, l’unica sua entrata finanziaria, è sfitto da un po’. In casa tutto è a terra, le mensole, i libri, i cassetti, e i giorni e le notti si susseguono senza tempo.

Un giorno irrompe nella sua vita Bambina, Viola, cinque anni, figlia di Yuri, suo fratello, che non vedeva da un Natale passato, anni fa. Bambina è muta, ha deciso di non parlare più. “Pensavo mi avrebbe seguita, con i cani succede così, invece era lì, di sale”.

Bambina, non parla, ma telefonerà a canale 32. Non parla, ma scriverà numeri su post-it fluorescenti. Non parla, ma appiccicherà quadrati colorati sulla porta di Luce e poi giù per le scale e sotto il portico.

Carmen Pellegrino – Cade la terra

Carmen Pellegrino – Cade la terra

“D’altronde, che cosa lasciava? Un odore di mondo, annusato di nascosto” (storia di Lucia Parisi)

pellegrino

Di una bellezza rara. Questo mi sento di dire. Di una bellezza rara per chi come me cerca la poesia, i contorni dei volti resi con la prepotenza docile e furiosa delle immagini, le più pure, cose di grembo. Una storia da bere, che prende posto nello stomaco come cibo che da solo non osa saziare, che chiama a sé l’aria e la modella come fosse argilla, la modella in forma di pane, in odore di miele e terra e ostinazione. Gente di una onestà straordinaria. Donne di una forza abominevole, lasciate lì a marcire di storia mentre la storia se le porta via. Abbracci indicibili, illuminanti, anche quelli mai dati. Uomini enormi e piccolissimi, energumeni trasparenti di miseria, umili dell’umiltà delle unghie sporche di lavoro, macchiati dal senno delle cose che si debbono pensare, che si debbono per forza credere. Figli che non sanno osare l’amore. Madri deserto. Padri cattedrale. Dentro un paese che scivola via, vero purgatorio o forse primo ed ultimo paradiso, un posto di sassi che è teca di memoria e resistenze, Estella tesse una tela di guerra e amore e crescita e solitudine e miracoli. Io di più non dico. Vi lascio qualche riga che potete trovare in dorso copertina. E il link al sito del libro. E un aggettivo: afrodisiaco (per le papille gustative del nodo che chiamo anima).

“Come fra le quinte di un teatro in disfacimento ecco aggirarsi un anarchico, un venditore di vasi da notte, una donna che non vuole sposarsi, un banditore cieco, una figlia che immagina favole, un padre abile nel distruggerle. Ma dove sono i vivi e dove i morti? Estella non se lo dice, perché vorrebbe solo cambiare i destini, invertire il corso di esistenze desolate, per ridare loro un po’di calore, come una vita nuova, ora che l’altra che ha infuriato per anni si è conclusa.”

Rob Pulce Molteni

Alento è un borgo abbandonato che sembra rincorrere l’oblio, e che non vede l’ora di scomparire. Il paesaggio d’intorno frana ma, soprattutto, franano le anime dei fantasmi che Estella, la protagonista di questo intenso e struggente romanzo, cerca di tenere in vita con disperato accudimento. Voci, dialoghi, storie di un mondo chiuso dove la ricchezza e la miseria sono impastate con la stessa terra nera. Capricci, ferocie, crudeltà, memorie e colpe di un paese condannato a ritornare alla terra. Come tra le quinte di un teatro ecco aggirarsi un anarchico, un venditore di vasi da notte, una donna che non vuole sposarsi, un banditore cieco, una figlia che immagina favole, un padre abile nel distruggerle. Con Carmen Pellegrino l’abbandonologia diviene scienza poetica. E questo modo particolare di guardare le rovine, di cui molto si è parlato sui giornali e su internet, ha finalmente il suo romanzo.