Il lavatoio – Sophie Daull #SophieDaull @VolandEdizioni

La prima cosa che bisogna sapere, prima di approcciare questa lettura, è che Sophie Daull è un’attrice e scrittrice francese che, a 20 anni, ha perso la madre per mano di un uomo che l’ha uccisa con 41 coltellate, dopo averla violentata, e successivamente ha dovuto affrontare il dolore incommensurabile della morte della figlia sedicenne, a causa di un’infezione. In seguito a questi strappi laceranti, si avvicina alla letteratura, trovando nella scrittura la cura per la sua anima a pezzi e il gancio a cui aggrapparsi per non sprofondare nell’abisso.

Se è vero che “ognuno ha una sola storia da scrivere”, la Daull ha la sua, questa storia tremenda che l’ha segnata nella carne e nel pensiero, dalla cui elaborazione sono nati tre libri, il primo dedicato alla figlia “Camille, mon envolée”, il secondo alla madre “La suture”, e questo che è una sorta di fusione tra autobiografia e finzione, in cui l’autrice cerca di trasmettere un messaggio importantissimo: la possibilità di percorrere una strada diversa dall’odio, di uscire dallo schema mentale “vittima/carnefice”, “colpa/punizione”.

“Il passo di lato, il terzo tempo del valzer, quello che zoppica un po’. Parlo dei fiori, della danza, delle cose inutili, evanescenti, minuscole, innominate, tutto ciò che manda in cortocircuito il passo ben regolato di una vita pensata come una marcia militare.”

L’assassino di sua madre, condannato all’ergastolo, esce di prigione dopo 18 anni (obbligatori), per buona condotta. L’unica a scontare per intero la sua pena è lei, condannata a vivere nel dolore per sempre. Ma dopo trent’anni è necessario lavare via il pus della ferita, strofinare la memoria contro il granito rugoso di un lavatoio, insaponare le parole e vederle scorrere via dopo averle sciacquate dal sudiciume, candeggiate accuratamente nella finzione. E quindi ecco questo libro.

Il gran bucato! Due voci. Due voci molto diverse, nel lessico e anche nel font. Quella di lui, del mostro che si è ricostruito una vita e un’identità, che vive senza slanci, con gli occhi bassi, solo casa e lavoro, lavoro e casa, senza più vizi, senza passioni, fino al giorno in cui, in tv, vede lei… la figlia della donna che ha ucciso 30 anni prima. E tutto torna.

Anch’io sono stata condannata all’ergastolo. In una cloaca di dolore putrido, di amnesia forzata, di confusa rimozione che ha finito per prosciugarsi, discretamente nauseabonda. Ma dopo trent’anni passati in questo sarcofago perfetto, la crosta prude, la piaga riparla. Trasuda un qualcosa che va lavato con acqua abbondante.Andrò quindi al lavatoio, dove la memoria si sfrega contro il granito rugoso, dove la lingua si risciacqua nel torrente che schiuma come un sapone di inchiostro, dove la finzione si fa candeggina.

E la voce di lei, la donna senza più una madre e senza più una figlia, che va in giro per la Francia a promuovere il suo libro… e di lì a qualche giorno andrà proprio a Nogent-le-Rotron, dove vive lui. Lui non prende pace, ha bisogno di lavarsi la coscienza, di pronunciare una parola mai detta e di spegnere il ronzio che gli invade la testa. Lei sa che lui esiste e vive in qualche posto nel mondo, ma il cestello della lavatrice cancella questa informazione e tutto torna pulito come biancheria stesa al sole. Leggere questo libro è stata un’esperienza molto intima, emozionante, dove il dolore è fuso così bene con la rabbia, il pentimento e il perdono, da non riuscire più a distinguerli e da generare riflessioni profonde, fuori da ogni retorica.

Antonella Russi

di Daull Sophie (Autore) Cristina Vezzaro (Traduttore) Voland, 2021

Descrizione

Una scrittrice promuove il suo libro alla tv francese. Un uomo rimane sconvolto dall’apparizione: la scrittrice è la figlia della donna che ha assassinato trent’anni prima. Condannato all’ergastolo e poi uscito per buona condotta, conduce ora un’esistenza qualunque, reinserito nella società come giardiniere municipale a Nogent-le-Rotrou. Proprio qui l’autrice presenterà il libro cinque giorni più tardi, e per l’ex detenuto inizia un conto alla rovescia destinato a scuotere l’ordine di una quotidianità pazientemente ricostruita… Mescolando storia intima e finzione in un evocativo realismo poetico, Sophie Daull fa rivivere sulla pagina una vicenda personale raccontandone la violenza e il dolore, il tentativo di lavare via la colpa o la memoria, interrogandosi su cosa sia a determinare ciò che si diventa, sulla possibilità del pentimento e del perdono.

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La città dei vivi – Nicola Lagioia #NicolaLagioia #Einaudi

“C’è un’aridità a cui è meglio non avvicinarsi. Si trova in noi ed è meglio ignorare l’estensione che occupa nella nostra anima” Alvaro Mutis, La neve dell’ammiraglio

Io non seguo la cronaca nera: odio il modo in cui viene raccontata, odio gli sciacalli, le domande assurdamente retoriche ai parenti delle vittime, il “come si sente?” dei giornalisti avvoltoi che brandiscono microfoni come fossero una giustificazione o un’arma, i “salutava sempre”, le trasmissioni televisive di finto approfondimento che servono solo ad assolverci tutti restituendo sempre l’immagine dei colpevoli come dei mostri pazzi avulsi dalla società e rassicurandoci così che non potrebbe mai toccare a noi, che siamo normali, ma allo stesso tempo solleticando la peggiore morbosità insita in ognuno di noi. Soprattutto odio il tribunale mediatico, del tutto privo di riscontri, di umanità, di analisi che serve solo per il rituale del quarto d’ora d’odio di orwelliana memoria.

Diversa è l’analisi di un evento di cronaca nera finalizzata alla comprensione di ciò che quell’evento porta con sè: in questo senso, maestro, almeno in Italia, è stato Giorgio Scerbanenco, che partiva dalla sua esperienza di giornalista per comporre ritratti di personaggi e ambienti magistrali. Lagioia, nel solco di quella stessa tradizione ma con un approccio più documentaristico che romanzato, scava in uno dei delitti degli ultimi anni, quello di Luca Varani, ucciso in un palazzo alla periferia di Roma da Manuel Foffo e Marco Prato, senza voler assolvere o condannare nessuno ma cercando di capire cosa abbia potuto portare due ragazzi ad ammazzarne un altro senza alcun movente né di tipo economico, né di vendetta: addirittura Manuel Foffo non aveva mai incontrato la vittima prima della notte dell’omicidio. Lo scenario è quello di una Roma devastata dall’incuria, dal cinismo, dalla corruzione, invasa dalla spazzatura e dai topi, martoriata dalle inchieste giudiziarie (il Mondo di Mezzo di Carminati, che, in un’intercettazione, divide il mondo tra quello dei vivi e quello dei morti, da cui il titolo del libro) in cui il delitto insensato sembra quasi, nella narrazione di Lagioia, l’apice del degrado a cui segue un diluvio torrenziale che in un romanzo sarebbe catartico, mentre nella realtà è solo un episodio atmosferico.

Riflettendo sull’odio che come sempre questi episodi di cronaca nera scatenano, e sulla sete di vendetta vomitata da ogni parte, Lagioia scrive:”Ma vendetta per cosa? Ci sentivamo umiliati, avevamo bisogno di umiliare. Ci sentivamo feriti, avevamo bisogno di ferire. Ci sentivamo in fondo mediocri, stupidi, pavidi e inessenziali, nel crepuscolo di un’epoca che aveva promesso di farci ricchi, intelligenti, coraggiosi. Ci davamo di conseguenza molto da fare per non guardare in faccia la realtà, agitavamo il nostro fallimento spacciandolo per la prova della nostra onestà, della nostra bontà, della nostra lucidità, quando non della nostra purezza, e partivamo a caccia di colpevoli (o iniziavamo a fabbricarceli) pur di tenere in piedi il castello di carte”.

Il romanzo è molto pasoliniano, anche perché si muove nel solco di quell’analisi che vede la cultura popolare sostituita da quella dei consumi, i cittadini sostituiti dagli utenti, il tessuto sociale spossessato di ogni senso di comunità lasciando un vuoto colmato dalla droga che scorre a fiumi. Al di là del movente del delitto, la riflessione di Lagioia vuole addentrarsi in fondo al pozzo, ammettendo di averlo lui stesso scrutato, almeno superficialmente, quando da ragazzo si gettò in imprese scriteriate, molto lontane della gravità di un delitto sia chiaro, ma che avrebbero potuto rovinarlo per sempre se fossero andate diversamente. “Sono stato fortunato” dice di se stesso, ricordando quegli episodi. “Non riesco a dire se fu più un eccesso di imbecillità o di fragilità a farmi finire nei guai. Sono certo tuttavia che, una volta nei pasticci, se non avessi reagito da scriteriato avrei avuto la peggio. […] le mie risorse di allora, voglio dire, erano così scarse che non mi avrebbero consentito di uscire senza sregolatezze – e sregolatezze piuttosto pericolose – dal vicolo cieco in cui mi ero ficcato. Ci era voluto più di uno strappo violento per tirarsene fuori”. Parte della responsabilità di queste azioni viene attribuita dall’autore ad una situazione famigliare complicata ma Lagioia non è accondiscendente con se stesso e confessa:”Il dolore, a volte, è solo il pretesto per dare sfogo alla propria personale imbecillità, o al narcisismo più sfrenato”.

Allora possiamo rimanere tranquilli davanti alla tivù a urlare alla pena di morte per i mostri, oppure cercare di trovare, per quanto sia difficile, un punto di contatto con gli assassini, non per assolverli, non per sminuire il dolore della vittima e dei suoi cari, non per giudicare, ma per capire. Riconoscere la fragilità e la debolezza di ognuno di noi, nella sua particolare e unica specificità motivata dai conflitti famigliari, dalla difficoltà di costruire una proprio identità nel mondo della competizione sfrenata, dai giudizi che tropppo spesso dispensiamo costruendo modelli irraggiungibili per noi stessi e per gli altri; tutti omologati, tutti perfettamente inseriti in una società alienata, tutti frustrati. Marco Prato si uccise in carcere mentre Manuel Foffo venne condannato a 30 anni di reclusione. Lagioia, in chiusura, riporta un’ultima riflessione derivante da un libro che gli viene consigliato, “Il libro dell’incontro” in cui si documenta il percorso che porta alcune delle vittime della violenza degli anni di piombo ad incontrare, con dei mediatori, gli autori degli omicidi dei loro cari, partendo da due presupposti fondamentali per dare un senso all’operazione: “da una parte i responsabili della lotta armata erano consapevoli di aver distrutto la vita di intere famiglie, dall’altra i parenti delle vittime erano pronti a riconoscere la piena umanità delle controparti”. La piena umanità. La stessa che pretendo sia riconosciuta a me, la stessa che vogliamo venga riconosciuta a ciascuno di noi. Il padre della vittima, in chiusura del libro, lamenta di non aver mai ricevuto una telefonata dai genitori degli assassini. Il tema della riconciliazione, del senso della carcerazione come compensazione dell’errore, della reintegrazione in società dei rei viene qui accennato ma è un tema su cui la letteratura, a partire da “Resurrezione” di Tolstoj, si è spesso interrogata. In ogni caso, la pena non può essere quella di privare dell’umanità i colpevoli, come troppo spesso accade nelle carceri o addirittura ancora prima quando non si sono celebrati i processi e non sono state chiarite le responsabilità. Dovremmo comunque almeno provare ad esercitare quell’umanità che vogliamo ci venga riconosciuta, soprattutto quando sembra che non ci ci sia spazio per quell’esercizio. Mi chiedo: io sarei in grado di farlo nei confronti di qualcuno che facesse del male ai miei cari? Molto onestamente, non lo so. Essere umani vuol dire prima di tutto ammettere le proprie debolezze e poi provare a farci i conti senza nasconderle e senza nemmeno farle diventare un alibi. O almeno credo.

Edoardo Alessandro Maria

«Tutti temiamo di vestire i panni della vittima. Viviamo nell’incubo di venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. Preghiamo di non incontrare sulla nostra strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice?»

La città dei vivi – Nicola Lagioia

Einaudi, 2020

Supercoralli pp. 472

ISBN 9788806233334