Paola Cereda – Le tre notti dell’abbondanza #PaolaCereda

“Rocco.”

“Che c’è.” “Io cresco e la tua immagine, invece, resta com’era.” “Tu hai la fortuna dei vivi.” “La fortuna di invecchiare?” “Quella di complicarsi.” “Se tu fossi qui come saresti?” “Sarei una persona come un’altra.” “Cioè?” “Potrei stupirti o deluderti.” “Anche io posso stupirti o deluderti.”

“Per forza, ha la fortuna dei vivi.”

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Molto spesso, letto un libro, ci fermiamo a dirci: “mi è piaciuto” oppure “no , non mi è piaciuto”.

Letto, e poi riletto, a distanza di qualche tempo, il libro di Paola Cereda mi ha fatto concludere che Sì, mi è piaciuto davvero, e ho anzi sentito la necessità di capire il perchè.

Intanto è il libro di una Scrittrice vera, assolutamente non banale e che entra nella materia con preparazione e passione: il suo linguaggio pieno di colorature e metafore dense e decisive nel cogliere sentimenti e atteggiamenti dei caratteri presentati, individua, a mio modesto parere, un talento che si sta facendo evidente ad ogni tappa del suo percorso di scrittura.
Dopo la fantasia e la magia di Agata e della sua salsa in un racconto ( Se chiedi al vento di restare) che stava soprattutto nella dimensione fantastica e poetica combinando il mondo chiuso della Sardegna con la ventata allegra ed esotica di un circo che trascina con sè anche l’amore per la protagonista, in questo romanzo si scende in terraferma, nella dura e greve Calabria della ‘ ndrangheta. Qui, dove anche un mare a portata di mano rimane un sogno proibito, perché una scala interrotta per l’accesso alla spiaggia su ordine del boss malavitoso, diventa più claustrofobica di una gabbia per le persone che vivono nel paese.
I protagonisti sono due ragazzi, Rocco e Irene; si innamorano ma hanno la disavventura di ascoltare per sbaglio una conversazione pericolosa e da lì nasce la vicenda che sposta gli equilibri del potere consolidato del boss locale e durante le “tre notti dell’abbondanza” celebrazione rituale del posto con macellazione del maiale il cui sangue non sarà purtroppo l’unico ad essere versato cambia tutto nella vita del paese di Fosco e nulla sarà come prima.

Ho conosciuto – e amato – la Calabria per motivi famigliari e professionali e mi sono ritrovato nella descrizione di quel clima depresso e rassegnato che veste le giornate degli abitanti di Fosco, il paese, inventato ma non tanto, dove si svolge la vicenda. Cereda, anche autrice e regista di un encomiabile gruppo teatrale torinese (AssaiAsai) , ne fa il centro di vite che partendo dallo stesso pozzo di solitudine, prendono tante traiettorie diverse, alcune seguendo l’inerzia inevitabile di consuetudini ancestrali e immutabili ma altre, soprattutto dei due grandi giovani protagonisti, i cugini Irene e Angiolino oltre allo sfortunato Rocco, rompendo lo schema prefissato, i pregiudizi , le abitudini, le convenienze. Insomma abbattendo muri che non sono fatti solo per fermare i migranti ma sono quelli che ci creiamo mentalmente fingendo di non vedere differenze e diffidenze sociali.

Ecco perché questo racconto è davvero molto bello e andrebbe letto da tutti quelli che hanno una gabbia da cui evadere: si può scegliere la propria vita, se si vuole, non soltanto scappando da un posto o dalle persone che ti tengono incarcerato, ma rimanendo se stessi senza timore di mostrare il proprio coraggio (Irene) e la propria dignità di “diverso” (Angelino) .

E allora, forse, anche un paese abbandonato dopo una mattanza e dopo l’infamia delle faide tribali, può ricominciare a vivere.

I due romanzi di Paola Cereda possono essere anche una buon regalo per ragazzi che hanno voglia di pensare e di capire perchè è importante amare le differenze.

Renato Graziano

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