Scrittura cuneiforme – Kader Abdolah #Iperborea #KaderAbdolah

*Un libro che abbia per tema uno Stato particolare

«Per questo mi sono immerso negli appunti di mio padre, perché quello che ha scritto è anche la mia storia»

Ismail, esule politico iraniano rifugiato in Olanda, riceve un giorno un misterioso taccuino, scritto in strani caratteri incomprensibili. È il quaderno che suo padre Aga Akbar, riparatore di tappeti sordomuto e analfabeta, portava sempre con sé. Peregrinando tra le montagne innevate al confine tra Iran e urss, nei villaggi dove si tessevano tappeti volanti e i santi aspettavano il Messia leggendo libri in fondo ai pozzi, Aga Akbar registrava i suoi pensieri nell’unica scrittura che conosceva, i caratteri cuneiformi copiati da un’iscrizione rupestre. Ismail, che di suo padre era stato “la bocca e le orecchie”, si pone il compito di tradurlo, per perdonarsi di averlo abbandonato e riconciliarsi con il proprio destino. Ora, in quel paese nebbioso e grigio dove si è ritrovato anche lui sordomuto e analfabeta davanti a una lingua e a usi da imparare, è tempo di cercare di decifrare il passato, il suo e quello dell’Iran dell’ultimo secolo. La modernizzazione forzata degli scià, la lotta di liberazione, l’avvento e la fine di Khomeini sono tappe dell’epopea famigliare, le cause degli eventi e dell’esilio. In un continuo oscillare tra presente e passato, tra Olanda e Persia, tra poesia e realtà, nel riannodarsi del commovente rapporto tra padre e figlio, si tessono i grandi temi di oggi.

Abdolah intreccia i molti fili della narrazione, come suo padre Aga Akbar, riparatore di tappeti, per tessere il disegno di un’identità fatta a pezzi dalle vicende politiche dell’Iran contemporaneo, per dare testimonianza e offrire la propria voce a tutti coloro che non possono più parlare. Ne emerge una trama a doppio filo: da una parte il resoconto dell’autore, che ripercorre la sua vita e quella della sua famiglia nell’Iran del secondo dopo guerra fino all’avvento del regime di Khomeini; dall’altra il taccuino del padre, scritto in un pidgin cuneiforme, che Abdolah prova a tradurre per comprendere le lacune degli anni precedenti alla sua nascita e i periodi in cui non ha vissuto in patria. Per quanto lontano la narrazione possa spingersi, la scrittura comincia con un semplice gesto, che racchiude in sè il senso e la poesia dello stile di Abdolah:

Secondo la tradizione della casa, nessuno poteva ancora parlare. Tutti tacquero, perché la prima parola, la prima frase a raggiungere il cervello vergine del bambino doveva essere una poesia, un verso antico e melodioso.

Ed è così che inizia l’intreccio: “Inizio: Tutti i ciechi del villaggio avevano un figlio maschio. Un caso? Non lo so. Io penso che abbia deciso così la natura.I figli erano gli occhi dei padri. Appena il bambino faceva i primi tentativi di gattonare, il padre cieco gli posava il palmo della mano sinistra sulla spalla e il bambino imparava a guidarlo. Il bambino scopriva ben presto di essere un prolungamento di suo padre. Per i figli dei sordomuti era ancora più difficile, perché loro svolgevano la funzione di bocca, cervello e memoria dei loro padri”.

È in questo modo che Abdolah tesse le fila del racconto: la sua vita come il proseguimento di quella di suo padre, due parti che non si concepiscono come separate ma come un unico individuo, da cui scaturisce l’armonia della composizione narrativa. Il rovescio di questa composizione è l’esilio dell’autore che divide i due protagonisti e crea lo spazio che Abdolah riempie con la fantasia romanzesca per interpretare i segni cuneiformi dipinti sul taccuino del padre.

“La perdita è un’esperienza che porta a una strada nuova. Una nuova occasione per pensare in modo diverso. Perdere non è la fine di tutto, ma la fine di un certo modo di pensare. Chi cade in un punto, in un altro si rialza. Questa è la legge della vita”.

Alla fine non si tratta d’altro che dello spazio lasciato alla mente per vivere una seconda volta la propria vita, tradurla dal cuneiforme al persiano e dal persiano all’olandese, guardandola da lontano per riconoscere meglio il disegno emergente dall’intrecciarsi dei destini.

“Così andarono le cose. Così vanno spesso nella vita. Tutto passa. A volte si deve semplicemente aver pazienza. Se una cosa non va, bisogna lasciarla perdere per un po’. Si dà così alla vita spazio perché trovi da sola una via d’uscita.

Stefano Lilliu

Scrittura cuneiforme – Kader Abdolah

Traduttore: Elisabetta Svaluto Moreolo

Editore: Iperborea

Edizione: 3 Anno edizione: 2003 Pagine: 334 p., Brossura

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Il posto – Annie Ernaux #recensione #AnnieErnaux

ernaux

Annie Ernaux è una (auto)-biografa davvero notevole. Per me lo conferma la lettura di questo Il posto, primo uscito di una ideale trilogia. Il secondo, Gli anni, è una  cavalcata di sette decenni di vita in cui l’autobiografismo è solo il grimaldello di ingresso alla visione sociale, culturale, esistenziale di tre generazioni alle prese con un mondo in continua mutazione. Infine, L’altra figlia, dolorosa confessione di un tormento collegato alla scoperta tardiva e reticente da parte dei suoi genitori dell’esistenza di una sorella maggiore morta a 6 anni.

Ne Il posto, forse il più riuscito dei tre nel difficile equilibrio fra memoria personale e racconto di vita collettiva, il meccanismo di innesco è la morte del padre, avvenuta mentre chi narra, in questo caso la scrittrice, è in visita ai genitori, ma ormai lontana fisicamente e socialmente da loro.
Un padre di condizione umile, prima contadino, poi operaio e poi commerciante-barista assieme alla moglie, attraverso il quale intravediamo il mondo circostante del paese natale dell’autrice (Yvetot nella Bassa Normandia) e da cui lei, progressivamente, facendosi adulta se ne distacca senza strappi dolorosi ma con la consapevolezza di una diversa maturità e di un avanzamento sociale, per quella generazione, del tutto naturale.

La capacità della Ernaux di ricreare i mondi passati, la memoria degli eventi piccoli e grandi, interni ed esterni alla famiglia che costruiscono le biografie di vita è stupefacente, perché ottenuta con progressivi essenziali elementi narrativi allo stesso tempo ricchi di dettagli e assolutamente sobri nella forma. La lettura non è mai faticosa ma scorre piana e coinvolgente come raramente capita nel leggere le biografie, perché davvero ci sembra di essere in quegli anni, in quei posti. Una scrittura che usa anche riportare come testimonianza le brevi frasi di buon senso comune o di antica saggezza che più di interi capoversi di ponderosi saggi sociologici danno il senso di come si viveva, di cosa si pensava, della scala di valori e di convinzioni. Un mondo contadino e piccolo-borghese che potrebbe oggi farci sorridere se non avessimo sotto gli occhi il disastro sociale, l’insicurezza e le disuguaglianze sociali con le quali le generazioni nate da quel mondo si devono confrontare e che nessuno sa come contrastare.

Renato Graziano