Oltre il confine – Cormac McCarthy #McCarthy #frontiera #TheCrossing #border

“Dopo un po’ si sedette sulla strada. Si levò il cappello e lo posò sull’asfalto davanti a sé, chinò la testa, si strinse il viso tra le mani e pianse. Rimase lì a lungo, poi il cielo a est incominciò a farsi grigio; poi si levò il sole vero, quello fatto da Dio, ancora una volta, per tutti, senza distinzioni.”

Oltre il confine – Cormac McCarthy

Traduzione di: Rossella Bernascone – Andrea Carosso
Editore: Einaudi,2006

Fine anni ’30. La famiglia Parham si è trasferita in New Mexico, nella nuova contea Hidalgo, fertile e selvaggia, per sfuggire alla Grande Depressione. Billy ha 16 anni e suo fratello Boyd 14, sono i protagonisti di questa suggestiva storia di un viaggio iniziatico. Billy riesce a catturare la lupa che minaccia il loro bestiame, ma non la lascia uccidere: cerca anzi di riportarla sulle montagne messicane, di restituirla al suo mondo, che è poi anche quello di una nonna molto amata. Comincia un lungo viaggio avventuroso che porterà Billy e il fratello Boyd a perdersi e a ritrovarsi in un paesaggio metafisico e spietato. 
Questo libro mi ha in parte riconciliato con l’autore, anche se ho trovato alcune parti ripetitive, troppo lunghe e dettagliate e noiose (almeno per me). Lo stile è sempre quello: descrizioni dettagliate (quasi come se si trattasse di una guida per le riprese cinematografiche), linguaggio scarno e curato: i dialoghi sono fitti e spesso difficili da seguire nel loro botta e risposta, notevole è l’uso del discorso indiretto per riportare i racconti tra i personaggi, e in questo romanzo sono stati inseriti frequenti termini e dialoghi in lingua spagnola, che lo rendono ancora più prezioso dal punto di vista linguistico. L’indole dei personaggi si ricava dalla narrazione stessa e dai fatti, e i loro pensieri affiorano assai di rado. I luoghi sono sempre quelli (Stati Uniti del Sud, al confine col Messico) e il periodo è quello della Seconda Guerra Mondiale, anche se poco di ciò riecheggia tra le righe, in quanto l’esistenza di quelle parti è totalmente estraniata e isolata dal resto del mondo, quasi fosse un continente a parte escluso dal corso della storia perché vive una storia tutta sua, che basta a se stessa. Protagonista è ancora una volta la solitudine dell’uomo e la crudeltà della vita, anche se uno spiraglio viene lasciato alla speranza, anche se la conclusione mi ha lasciato assai perplessa. E’ un libro quasi sensoriale, dove in ogni parte viene quasi sottolineata la mancanza/presenza di un aspetto sensoriale: ovunque predomina il silenzio (anche il cane è muto) e le cose non dette, ma immaginate; una parte è incentrata sull’assenza della vista e il filo dei ricordi, mentre spesso vengono descritte i cibi e le bevande e i loro sapori/odori; gli odori ritornano spesso nelle descrizioni della natura; tutto sembra invece molto tattile.
La prima parte mi ha catturata totalmente: ho trovato l’episodio della lupa veramente degno di nota e mi ha colpito il rapporto che il protagonista riesce ad instaurare con la fiera, non esente da qualche eco di Martin Eden; anche qui, alla fine la vera bestia risulta essere l’uomo e lo stesso insegnamento si apprende verso la fine con la vicenda del cavallo Nino, ferito quasi a morte. Ho apprezzato inoltre alcuni personaggi come il cieco e lo zingaro e i ragionamenti che affrontano le ataviche riflessioni esistenziali dell’uomo su Dio, sulla vita e il destino, sulla morte e su cosa, appunto, ci sia oltre il confine.

“La conosceva abbastanza bene, questa donna messicana, i cui figli erano morti da molto tempo, vittime di quel sangue e di quella violenza che preghiere e prostrazioni sembravano impotenti a calmare. La sua fragile sagoma e la sua muta angoscia erano una costante di quelle terre. Oltre i muri della chiesa la notte conteneva un terrore antico di millenni, agghindato di piume e squame di pesce; e anche se la notte continuava a fare razzia dei suoi figli, chi poteva dire quali mali peggiori della guerra, del tormento e della disperazione la perseveranza della vecchia aveva tenuto alla larga, quali storie più dolorose contro le quali alla fine non contava altro che la sua fragile sagoma curva che recitava preghiere a bassa voce, le sue mani rugose che stringevano il rosario di semi di frutta.”

Silvia Loi

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