Budapest – Chico Buarque #ChicoBuarque #Feltrinelli

“A differenza dell’amore, che tende sempre a straripare, l’amicizia ha bisogno delle sue dighe”.

La copertina è irresistibile. La classica vista della Bahía de Guanabara con il Pão de Açúcar sullo sfondo di un oceano tinto di verde sotto un cielo giallo, ma al centro, come un imprevisto, la parola Budapest. Se è l’incipit di un romanzo a dover catturare la curiosità del lettore qui, per così dire, l’operazione avviene già sulla soglia del testo. Qualcosa di simile era accaduto con Disturbo (Mondadori, 1992), il primo romanzo di Chico Buarque uscito in Italia, ma allora era per via dello stupore di trovare il nome del noto cantante brasiliano non associato a un disco bensì a un’opera narrativa.

Cosa abbia spinto uno dei più grandi cantautori brasiliani fino a una terra lontanissima dalla sua non è dato saperlo. Ma in compenso il risultato è stupendo, Josè Costa dimostra di destreggiarsi bene con la lingua dopo notti insonni a guardare i notiziari in lingua ungherese nella stanza d’albergo e la dolce compagnia di Krista. Uno di quei libri da leggere tutto d’un fiato. Ci trovi ritmo (come nei migliori samba scritti da lui), ironia, comicità, il dono magnifico di far suonare le parole rendendole leggere. Un piccolo gioiello!

Il protagonista e narratore in prima persona, José Costa, è un ghost writer, autore di discorsi di famosi politici e di romanzi di grande tiratura per conto terzi, che si è condannato a coltivare nell’ombra un amore smisurato per il linguaggio, che lo affascina tanto nei suoi aspetti morfologici, quanto in quelli fonetici. Ed è proprio la pura e semplice sonorità della lingua ungherese a rapire il protagonista durante uno scalo a Budapest, di ritorno da un improbabile congresso di autori anonimi. Questo colpo di fulmine darà luogo a una serie di vicissitudini che porteranno José Costa, alias Zsoze Kosta, a fare la spola tra due paesi – il Brasile e l’Ungheria – dividendosi tra due famiglie, due figli, due donne, due lavori perfettamente speculari, mettendo in gioco la propria identità, ripetutamente smarrita e recuperata, al di qua e al di là dell’Atlantico, sempre grazie alle rispettive magie di due lingue così lontane, diverse e affascinanti come il portoghese e l’ungherese.

“Due persone vicine, immerse ognuna nel proprio silenzio, non resistono a lungo in equilibrio, uno dei due silenzi finisce per risucchiare l’altro”

Beppe Ardito

Scrittura cuneiforme – Kader Abdolah #Iperborea #KaderAbdolah

*Un libro che abbia per tema uno Stato particolare

«Per questo mi sono immerso negli appunti di mio padre, perché quello che ha scritto è anche la mia storia»

Ismail, esule politico iraniano rifugiato in Olanda, riceve un giorno un misterioso taccuino, scritto in strani caratteri incomprensibili. È il quaderno che suo padre Aga Akbar, riparatore di tappeti sordomuto e analfabeta, portava sempre con sé. Peregrinando tra le montagne innevate al confine tra Iran e urss, nei villaggi dove si tessevano tappeti volanti e i santi aspettavano il Messia leggendo libri in fondo ai pozzi, Aga Akbar registrava i suoi pensieri nell’unica scrittura che conosceva, i caratteri cuneiformi copiati da un’iscrizione rupestre. Ismail, che di suo padre era stato “la bocca e le orecchie”, si pone il compito di tradurlo, per perdonarsi di averlo abbandonato e riconciliarsi con il proprio destino. Ora, in quel paese nebbioso e grigio dove si è ritrovato anche lui sordomuto e analfabeta davanti a una lingua e a usi da imparare, è tempo di cercare di decifrare il passato, il suo e quello dell’Iran dell’ultimo secolo. La modernizzazione forzata degli scià, la lotta di liberazione, l’avvento e la fine di Khomeini sono tappe dell’epopea famigliare, le cause degli eventi e dell’esilio. In un continuo oscillare tra presente e passato, tra Olanda e Persia, tra poesia e realtà, nel riannodarsi del commovente rapporto tra padre e figlio, si tessono i grandi temi di oggi.

Abdolah intreccia i molti fili della narrazione, come suo padre Aga Akbar, riparatore di tappeti, per tessere il disegno di un’identità fatta a pezzi dalle vicende politiche dell’Iran contemporaneo, per dare testimonianza e offrire la propria voce a tutti coloro che non possono più parlare. Ne emerge una trama a doppio filo: da una parte il resoconto dell’autore, che ripercorre la sua vita e quella della sua famiglia nell’Iran del secondo dopo guerra fino all’avvento del regime di Khomeini; dall’altra il taccuino del padre, scritto in un pidgin cuneiforme, che Abdolah prova a tradurre per comprendere le lacune degli anni precedenti alla sua nascita e i periodi in cui non ha vissuto in patria. Per quanto lontano la narrazione possa spingersi, la scrittura comincia con un semplice gesto, che racchiude in sè il senso e la poesia dello stile di Abdolah:

Secondo la tradizione della casa, nessuno poteva ancora parlare. Tutti tacquero, perché la prima parola, la prima frase a raggiungere il cervello vergine del bambino doveva essere una poesia, un verso antico e melodioso.

Ed è così che inizia l’intreccio: “Inizio: Tutti i ciechi del villaggio avevano un figlio maschio. Un caso? Non lo so. Io penso che abbia deciso così la natura.I figli erano gli occhi dei padri. Appena il bambino faceva i primi tentativi di gattonare, il padre cieco gli posava il palmo della mano sinistra sulla spalla e il bambino imparava a guidarlo. Il bambino scopriva ben presto di essere un prolungamento di suo padre. Per i figli dei sordomuti era ancora più difficile, perché loro svolgevano la funzione di bocca, cervello e memoria dei loro padri”.

È in questo modo che Abdolah tesse le fila del racconto: la sua vita come il proseguimento di quella di suo padre, due parti che non si concepiscono come separate ma come un unico individuo, da cui scaturisce l’armonia della composizione narrativa. Il rovescio di questa composizione è l’esilio dell’autore che divide i due protagonisti e crea lo spazio che Abdolah riempie con la fantasia romanzesca per interpretare i segni cuneiformi dipinti sul taccuino del padre.

“La perdita è un’esperienza che porta a una strada nuova. Una nuova occasione per pensare in modo diverso. Perdere non è la fine di tutto, ma la fine di un certo modo di pensare. Chi cade in un punto, in un altro si rialza. Questa è la legge della vita”.

Alla fine non si tratta d’altro che dello spazio lasciato alla mente per vivere una seconda volta la propria vita, tradurla dal cuneiforme al persiano e dal persiano all’olandese, guardandola da lontano per riconoscere meglio il disegno emergente dall’intrecciarsi dei destini.

“Così andarono le cose. Così vanno spesso nella vita. Tutto passa. A volte si deve semplicemente aver pazienza. Se una cosa non va, bisogna lasciarla perdere per un po’. Si dà così alla vita spazio perché trovi da sola una via d’uscita.

Stefano Lilliu

Scrittura cuneiforme – Kader Abdolah

Traduttore: Elisabetta Svaluto Moreolo

Editore: Iperborea

Edizione: 3 Anno edizione: 2003 Pagine: 334 p., Brossura