Il posto – Annie Ernaux #recensione #AnnieErnaux

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Annie Ernaux è una (auto)-biografa davvero notevole. Per me lo conferma la lettura di questo Il posto, primo uscito di una ideale trilogia. Il secondo, Gli anni, è una  cavalcata di sette decenni di vita in cui l’autobiografismo è solo il grimaldello di ingresso alla visione sociale, culturale, esistenziale di tre generazioni alle prese con un mondo in continua mutazione. Infine, L’altra figlia, dolorosa confessione di un tormento collegato alla scoperta tardiva e reticente da parte dei suoi genitori dell’esistenza di una sorella maggiore morta a 6 anni.

Ne Il posto, forse il più riuscito dei tre nel difficile equilibrio fra memoria personale e racconto di vita collettiva, il meccanismo di innesco è la morte del padre, avvenuta mentre chi narra, in questo caso la scrittrice, è in visita ai genitori, ma ormai lontana fisicamente e socialmente da loro.
Un padre di condizione umile, prima contadino, poi operaio e poi commerciante-barista assieme alla moglie, attraverso il quale intravediamo il mondo circostante del paese natale dell’autrice (Yvetot nella Bassa Normandia) e da cui lei, progressivamente, facendosi adulta se ne distacca senza strappi dolorosi ma con la consapevolezza di una diversa maturità e di un avanzamento sociale, per quella generazione, del tutto naturale.

La capacità della Ernaux di ricreare i mondi passati, la memoria degli eventi piccoli e grandi, interni ed esterni alla famiglia che costruiscono le biografie di vita è stupefacente, perché ottenuta con progressivi essenziali elementi narrativi allo stesso tempo ricchi di dettagli e assolutamente sobri nella forma. La lettura non è mai faticosa ma scorre piana e coinvolgente come raramente capita nel leggere le biografie, perché davvero ci sembra di essere in quegli anni, in quei posti. Una scrittura che usa anche riportare come testimonianza le brevi frasi di buon senso comune o di antica saggezza che più di interi capoversi di ponderosi saggi sociologici danno il senso di come si viveva, di cosa si pensava, della scala di valori e di convinzioni. Un mondo contadino e piccolo-borghese che potrebbe oggi farci sorridere se non avessimo sotto gli occhi il disastro sociale, l’insicurezza e le disuguaglianze sociali con le quali le generazioni nate da quel mondo si devono confrontare e che nessuno sa come contrastare.

Renato Graziano

Isabel Allende – La casa degli spiriti #IsabelAllende

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“Ci sono molti bambini che hanno sogni divinatori, ma queste cose passano quando perdono l’innocenza”

Libro n•45 _ un libro che hai già letto almeno due o tre volte

Ho perso il conto di quante volte l’ho letto ed ogni volta mi piace e non lo trovo mai ripetitivo. Ho scelto questo libro perché, non so se conoscete la sensazione, ma è quello che più mi da conforto quando magari ho appena finito di leggere qualcosa che non mi piace, o di deludente, o quando succede qualcosa di brutto in generale nella vita, e allora davvero “un libro al giorno toglie la realtà di torno”.
È una moderna saga familiare che dagli inizi del 900 porta fino agli anni’70 attraversando la vita di tre generazioni della famiglia Trueba/ Del Valle. Ma è anche una sorta di testimonianza, per non chiamarla impropriamente autobiografia, della scrittrice stessa Isabel Allende e della sua discussa famiglia.
I narratori sono due e spesso si confondo come se parlassero in simultanea, e sono Alba Trueba, la nipote ultima nata del capostipite, Esteban Trueba, il nonno, alias l’altro narratore. Raccontano, a partire dalla fine,l’inizio della loro famiglia: i poteri sovrannaturali della nonna, Chiara chiarissima chiaroveggente, sposa di Esteban, medium in contatto con il mondo degli spiriti e in grado di avvertire gli eventi prima che accadano. L’amore profondo e tormentato della loro figlia, Blanca, per il figlio del fattore, Pedro Garcia Terzo da cui nascerà Alba. Le eccentriche, chiassose e riservate vite dei fratelli di Blanca, i gemelli più diversi al mondo, Nicholas e Jaime (che credo sia l’alter ego dello zio della scrittrice, Isabel Allende, l’ex presidente del Cile Salvador Allende). Alba scrive tutto questo perché la memoria è fragile, come diceva Clara, e la vita è talmente breve e tutto avviene così in fretta che non riusciamo a veder il rapporto fra gli eventi e non riusciamo a misurare le conseguenze delle azioni. Per questo si scrive: per vedere le cose nelle loro reali dimensioni e riuscire a trovare un senso mettendo insieme i pezzi di un rompicapo che sembra incomprensibile ma che, se portato a termine, acquisisce un senso in ogni sua parte.
È un mestiere difficile quello dello scrittore secondo Alba, perché non si riesce a vendicare la memoria di tutti coloro che ne hanno bisogno e la vendetta stessa e l’odio non sono buone motivazioni per raccontare perché nel tempo l’odio perde i suoi contorni e non si è più certi delle sue ragioni. Alba invece scrive perché il mestiere di chi racconta è la vita e il suo unico compito è riempire le pagine aspettando che gli eventi tornino alla normalità nel suo Cile contemporaneo, sotto il governo di Pinochet, mentre aspetta il suo uomo, un guerrigliero della resistenza e mentre aspetta che arrivino tempi migliori.
È di sicuro una delle storie più oneste che abbia mai letto e contiene tanta vita e tanto significato che può essere d’ispirazione per molti lettori anche se mossi alla lettura da interessi diversi.

Stefano Lillium