Nel posto in cui sono cresciuto le cose sono chiare: i maschi sono fatti in un modo – motorino, calcio, figa –, le femmine in un altro. Si sta da una parte oppure dall’altra. Ogni tentennamento, ogni tentativo di sconfinamento viene immediatamente riconosciuto e sanzionato. Pubblicamente, in strada, ovunque. Perché il codice è pervasivo e condiviso, si vuole stare al sicuro. Servono certezze, non c’è spazio per le sfumature.
Ho iniziato questo libro con un ascolto a caso, mentre facevo i “mestieri” come si dice qua in Lombardia, credendo di leggere un classico tipo “Furore”. Invece ho scoperto che si trattava di un libro nuovo, entrato nella dozzina dei finalisti del Premio Strega e Raiplay mi ha gabbato perché arrivata al capitolo X , mi ha lasciata lì a metà, semplicemente con un “ci vediamo in libreria”. Ma come? Proprio adesso che di Jonathan Bazzi non posso più fare a meno? Non posso fare a meno della sua sincerità , del suo racconto così diretto e spiazzante. “Quando scopri di avere l’HIV l’idea della morte irrompe in ogni caso, anche oggi, anche se ovunque senti dire che la medicina ha fatto progressi enormi, che basta curarsi e si fa una vita normale. Una morte non più imminente, ma che entra in gioco lo stesso come la presenza che deve essere scongiurata con esami, controlli, farmaci, stile di vita. È per lei che devo fare tutto quello che mi aspetta. È lì dietro l’angolo, d’ora in poi sempre pronta”. Ecco, so già da cosa parte questo racconto ma voglio esplorare la verità. Voglio capire fino in fondo da dove viene questo dolore così lacerante che si intuisce già dalle prime righe. “Sono nato a Rozzano ma non so menare, leggo, scrivo, balbetto, mi piacciono i maschi”.
Davanti al mondo, al pregiudizio del mondo è meglio tacere e nascondersi? Il patto velenoso si può spezzare, raccontando tutto. E Jonathan lo fa, a partire dall’infanzia difficile, dal rapporto con un padre per lo più assente, dai nonni, dalla madre bellissima e giovane, dalla scuola e dal dolore che lo accompagna in una famiglia così complicata. Decide di raccontarsi e la sua prosa frammentata, a scatti, tra passato e presente, é un urlo. Potentissimo. Per cui avanti. Ho preso il libro su Amazon Kindle. Non potevo lasciare una lettura che mi ha preso alla sprovvista, capitata a caso. Scusate se nella giornata del libro posto un audiolibro che finisce per essere un e-Book, ma Bazzi no, non potevo lasciarlo indietro.
“Col virus voglio farci qualcosa, agire su di lui, modificarlo, non essere inerme, subirlo–mi interessano solo le cose con cui posso imparare. Scriverne, per esempio, sfruttando la mia condizione di privilegiato, di contaminato che non prova vergogna. Rinominare quello che mi è successo, appropriarmene per imparare, vedere di più: usare la diagnosi per esplorare ciò che viene taciuto. Darle uno scopo, non lasciarla ammuffire nel ripostiglio delle cose sbagliate. Voglio rimanere là dove sta il dolore, per frammentarlo con le parole e fargli fare un po’ meno male.”
Barbara Facciotto
Ambientato principalmente a Rozzano, la periferia milanese dove si addensa una fitta e poco omogenea migrazione dal Sud Italia, Febbre di Jonathan Bazzi (Fandango Libri) racconta l’oggi del protagonista e io narrante, rappresentato dalla ricerca della malattia che lo debilita, e il suo passato in una famiglia divisa in due, quella della madre e quella del padre, sposatisi giovanissimi a causa della gravidanza di lei e separatisi poco dopo. Gay e introverso, Jonathan viene allevato dai nonni e dagli zii; a scuola scopre l’amore per lo studio, ma anche la fatica di stare con gli altri e la crudeltà che si sfoga su chi viene considerato un diverso. Per un po’ smette di studiare e cerca un lavoro qualunque, poi finalmente Milano e la laurea. La scoperta di essere sieropositivo, arrivata dopo un lungo periodo di sofferenza e confusione, è quasi liberatoria. Un libro spietatamente sincero che con grande ironia affronta temi serissimi e insieme celebra il potere liberatorio della parola.