Istanbul Istanbul – Burhan Sönmez #Istanbul #Sonmez #Nottetempo

“In realtà è una storia lunga, ma sarò breve. Non si era mai vista una nevicata cosí a Istanbul. Quando, nel cuore della notte, due suore lasciarono l’Ospedale Saint George di Karaköy, sotto le grondaie era pieno di uccelli morti. Nel mese di aprile, il gelo aveva flagellato i fiori dell’albero di Giuda e il vento, tagliente come una lama, sferzava i cani randagi. Dottore, tu hai mai visto la neve ad aprile? In realtà è una storia lunga, ma sarò breve.”

Istanbul Istanbul – Burhan Sönmez

Editore: Nottetempo
Traduzione: Anna Valerio

«Si sacrificava la libertà per il pane o si rinunciava al pane per la libertà.»

Una cella, quattro uomini, dieci giorni, una moltitudine di storie: un dottore, un barbiere, uno studente e un vecchio rivoluzionario sono incarcerati in una stanza angusta e gelata nei sotterranei di Istanbul. Fra gli interrogatori, le torture, il tempo sospeso e l’immobilità forzata cui sono inchiodati, scoprono l’incanto e il potere della parola come unica via di fuga possibile. La miscela dei quattro personaggi diversi e della città turca sarebbe perfetta per un incontro tra amici, seduti intorno ad un tavolo sorseggiando raki e guardando i traghetti che percorrono il Bosforo immerso in un tramonto rosso fuoco, in una atmosfera senza tempo….
Questo è quello che ci lasciano immaginare e dove gli stessi protagonisti vorrebbero trovarsi. La realtà è peggiore. Sono quattro esseri umani, rinchiusi in un centro di torture, nel sottosuolo della città turca. Sono oppositori dello Stato, tenuti in cattività, senza cibo, in una piccola cella freddissima, quasi al buio, periodicamente dilaniati, picchiati, massacrati nei modi più indicibili dalle guardie, nel tentativo di estorcere loro informazioni preziose. Il dolore accomuna, l’amicizia si inventa per non morire, il sogno della Istanbul di sopra permea la loro realtà, per cui decidono di sopravvivere alla morte certa nell’unico modo possibile: raccontandosi storie, esercitando l’immaginazione, come in un novello Decamerone. Sono esseri fiaccati ma indomiti. Il dominio sul corpo non raggiunge la mente che vaga libera. Solo la verità, il motivo per cui ciascuno di loro si trova lì, è preclusa e non può essere rivelato agli altri.
Soccomberanno?

“Il dolore trasforma il corpo in schiavo e lo stesso fa la paura con l’anima; così le persone vendono la propria anima per cercare di salvare il corpo”. Nel frattempo sognano la bella Istanbul ignara, la terra di sopra, quella del passato, ancora non infestata dal suo scultore, l’uomo, e dalla velocità irrefrenabile del tempo, suo alleato nella ricerca del profitto. Li vivono i propri doppi, quelli liberi, quelli che hanno diritto alle storie d’amore, che “pensano a questo luogo come al luogo del dolore e alla Istanbul di sopra come al luogo del non dolore. Era l’epoca dei miraggi. Il miglior modo per nascondere una bugia era dirne un’altra. Il modo per nascondere il dolore della città era creare dolore nei sotterranei“.

Eppure le persone cosiddette libere si aggrappano ad una falsa felicità, l’unico modo perché la città sopravviva.

Nel frattempo, i prigionieri straziati, sfuggiti dal tutto approdati al nulla, cercano di reinventare il tempo raccontando leggende piene di verità e di storia individuale che costruiscono la storia del proprio paese. Fanno finta di ridere, scherzare, inventare indovinelli, fumare, bramare il profumo dei cibi. In effetti curano le ferite dei compagni, sanguinano per i chiodi conficcati nei polsi, per le bruciature inferte ai piedi, per la rottura degli organi interni quando penzolano dalle sbarre di metallo. Vogliono diventare una storia e mischiare le loro vite con le acque del fiume e scorrere via. Dall’altra parte di questo gioco mortale vi sono le guardie, gli dei, coloro i quali “regnano sopra le sofferenze degli altri, sopra il loro ultimo respiro”, nella smania di esercitare il potere e rimpiazzare la morte, nella smania di impossessarsi prima dei loro sentimenti e poi dei poveri corpi. Perché gli uomini in generale hanno l’inferno nelle loro anime e vogliono trasformare il mondo in un inferno. E perché: “A Istanbul il pane e la libertà erano due desideri che richiedevano di essere l’uno schiavo dell’altro. Si sacrificava la libertà per il pane o si rinunciava al pane per la libertà.”

E se arriverà la morte, avrà il viso buono e il calore di un cane bianco. Traditi dagli amori e dalla vita, basterà lasciare andare le paure e librarsi leggeri, finalmente privi di dolore.

“Vogliono che io soccomba al dolore, che rinunci al mio amore. Vogliono che smetta di credere in me stesso e a Istanbul e che diventi come loro. Fanno a pezzi il mio corpo perché vogliono che la mia anima assomigli alla loro. Non si accorgono che la mia fiducia in questa città diventa sempre più forte”».

Paola Filice

Arancia meccanica – Anthony Burgess #Burgess #AranciaMeccanica

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Arancia meccanica (A Clockwork Orange), è un romanzo fantapolitico o distopico di Anthony Burgess del 1962. Riadattato per il grande schermo, Stanley Kubrick ne trasse la celeberrima versione cinematografica Arancia meccanica, distribuita negli Stati Uniti nel 1971 e nel resto del mondo nel 1972. Prima ancora del film di Kubrick, il romanzo ha goduto di un ulteriore adattamento intitolato Vinyl, diretto nel 1965 da Andy Warhol, ma ispirato molto più liberamente al libro rispetto alla successiva versione, e inoltre, nei decenni successivi furono prodotti numerosi spettacoli di teatro ispirati al libro. Il romanzo venne tradotto in italiano nel 1969 col titolo Un’arancia a orologeria e nel 2005 è stato riedito con il titolo del film.

Traduttore: F. Bossi
Editore: Einaudi
Collana: Super ET
Quanto è libero l’uomo?

Il libro è stato già abbondantemente recensito, ma mi fa piacere aggiungere alcune impressioni personali.
Su una trama apparentemente semplice, emerge a chiare lettere la questione del libero arbitrio umano, al di là del bene e del male e non a caso l’unico ad essere contrario al trattamento di condizionamento al bene, è proprio un uomo di chiesa, il cappellano del carcere in cui Alex è rinchiuso. Alex accetta di sua spontanea volontà (senza il consenso dei genitori, pur essendo un minore?) di sottoporsi alla cura dal male, proprio perchè spera ingenuamente che essa sia il viatico per l’agognata libertà. Dopo il trattamento, ritornato in libertà, tutto il male della società gli si scaglia contro; quasi rispondesse ad un’emblematica legge del contrappasso, Alex da “buono” non ha più nessun ruolo nella società: non è più figlio, né amico e perde la sua identità.
Mi ha deluso la conclusione aggiunta, secondo cui la malvagità di Alex è inversamente proporzionale alla sua evoluzione verso la maturità… quasi un contentino per rassicurare il pubblico. Certo è che questo libro, oggi apparentemente banale, sia stato invece altamente avveniristico all’inizio degli anni ’60, che tanti cambiamenti sociali portò in tutto l’Occidente. Una nota di originalità, la si deve anche all’uso gergale del linguaggio con il quale Alex si esprime, i alcuni punti anche complesso da decifrare.
Io ricordo molto bene la versione cinematografica che portò al romanzo tanta celebrità: in Italia uscì vietato ai minori di 18, per le scene ritenute violente. Allora io avevo 13 anni e mio fratello 15, ma i nostri genitori ci accompagnarono a vederlo, in quanto ritenevano che fosse significativo ed importante per la nostra formazione; erano appunto gli anni ’60 e i miei si aggiornavano costantemente sui vari metodi educativi e inoltre mio padre studiava sociologia ed era rimasto particolarmente affascinato dallo studio di Skinner.
All’inizio del nuovo anno scolastico, l’insegnante d’italiano ci fece fare un tema a piacere su un libro letto o un film visto durante l’estate: ebbene, io scrissi il tema proprio sul film Arancia Meccanica, e inaspettatamente vinsi un premio. La mia sorpresa fu immensa perché l’insegnante, pur essendo molto colta e preparata, era la classica “signorina cattolica osservante”, ma reputò il mio tema migliore di un altro sulla Bibbia e mi regalò l’abbonamento annuale ad una rivista per adolescenti, molto ben impostata, ricca di spunti di riflessione, che mi indusse ancor più ad amare la lettura.
Ecco perché non potevo non leggere questo libro.

Eccomi là. Cioè Alex e i miei tre drughi. Cioè Pete, Grob e Fio. Eravamo seduti nel Korova milkbar arrovellandoci il gulliver per sapere cosa fare della serata. Il Korova milkbar vende ” latte+ “, cioè diciamo latte rinforzato con qualche droguccia mescalina, che è quel che stavamo bevendo. È roba che ti fa robusto e disposto all’esercizio dell’amata ultraviolenza. 

Silvia Loi