Lauren Groff, I mostri di Templeton

20141005_114434

Avendo assai apprezzato l’Arcadia della Lauren, con la malata compulsività che mi brancica quando me piace quarcosa, mesi e mesi fa avevo ordinato sti mostri. Tuttavia, giacchè il tempo fugge e rumina e mastica soprattutto i circuiti neuronali non più vivaci ed esuberanti frugoletti, quando il mio amico libraio qualche settimana fa mi ha consegnato, insieme all’amato 10 dicembre, anche sti mostri, io son caduta dal pero. Ecchedè questo?? L‘avevo ordinato io, proprio io? Completamente dimentica, ahia, orenda roba la perdita di pezzi di memoria. A mia discolpa dico tuttavia che appena giunta a casa ho recuperato il brandello, posizionato la tessera, terminato il puzzle. Maccerto, l’Arcadia, la Lauren, la Groff, no? svaporata che non sei altro! Eqquindi i mostri. Che poi è na storia scritta per celebrare la sua propria vera cittadina Cooperstown, NY (nel romanzo Templeton). La storia vera le ha preso un po’ la manina, alla Lauren, e con la storia vera è arrivata la magia e l’invenzione e la creazione. E così si snoda la narrazione, su diversi piani temporali, e nel ricostruire la storia della sua famiglia, la protagonista Willie, ritornata nolente alla natia Templeton per guai suoi propri, risale ai suoi avi famosi, i fondatori, che prendono vita, tornano dal passato, raccontano di sé, presentandosi un cincinino diversi da come i libri li narrano. La cittadina, i suoi abitanti, la mamma Vi (personaggione!!!), l’amica Clarissa e i “nostri antenati” si circonfondono di mistero e magia, e ci portano a spasso per i secoli, librati sul lago, contornati dalla bellezza della natura. Piaciuto parecchiamente, che sto sueggiù per l’anni ammè, curiosa come un cercopiteco, mi garba assaje.

“alla musica della superficie, a quella musica intricata fatta di vento e di umano e di animale e d’altro ancora, che gli ritorna in mente proprio intanto che le palpebre si abbassano;
al fatto che con quella musica per un po’ non era più solo, non completamente;
all’oscurità che cala mentre lui risale alla luce, pensando alla musica;
all’oscurità che cala e all’acqua trafitta dalla luce dell’alba;
al fatto che è bello
che è bello
bello”

Lazzìa

Lauren Groff – Arcadia

000036_7627

Vi assicuro che non è stato il Re (che pare abbia paragonato a Harry Potter il primo romanzo di Lauren) a spingermi verso questo libro, bensì una trasmissione radio. Vabbè, forse poco importa come ci si arriva, ma il fatto in sé di esserci arrivati.
Arcadia parla di una comune hippy degli anni ’60, vista dagli occhi di un bambino, il primo bimbo nato in comunità, Briciola. Attraverso di lui, piccolo, poi adolescente, poi adulto, una parte della storia americana, dagli anni ’60 ai giorni nostri (e un po’ oltre…)

“noi volevamo fare qualcosa di puro. volevamo vivere con la terra, non su di essa. vivere restando fuori dalle perversioni del mondo mercantile e guadagnarci da vivere partendo da zero.
volevamo che il nostro amore fosse un faro col quale illuminare il mondo.”

Briciola è il testimone critico di quel mondo che è il suo ma dal quale riesce a prendere le distanze, e vedere le contraddizioni. Arcadia, quindi, un microcosmo nel quale tutti si aiutano, tutti lavorano insieme, tutti hanno lo stesso obiettivo: vivere in pace, con amore, non facendo del male a nessuna creatura, condividendo tutto.
C’è il lavoro nei campi, il forno in cui le donne cuociono tutti i giorni il pane per la comunità, il cibo vegano, le capanne sudatorie, c’è la natura pura e incontaminata, tutt’intorno, madre e matrigna, i parti (c’è una scena di un parto che…ah, la meraviglia!) i bambini di cui tutti si prendono cura, la musica. Briciola cresce in questo novello paradiso terrestre che molto presto però inizia a mostrare le solite crepe, quelle che noi esseri umani riusciamo ad aprire anche quando non vorremmo, la voglia di protagonismo, il potere, la difficoltà della convivenza, le rivendicazioni personali, i sentimenti che per quanto facciamo emergono sempre perché siamo, appunto, esseri umani fallibili, e quindi egoismo, collera, tristezza.
E tuttavia per Briciola (e per chi legge), Arcadia è un luogo fantastico, talvolta pauroso, in cui il rapporto con la natura assume connotazioni quasi magiche (il bosco, le radici, il freddo, gli animali, il ghiaccio, il sole, lo stagno, la cascata).
Nell’ultima parte del libro Briciola è un uomo, vive nel mondo Esterno, ha una figlia, una vita “normale”. E tuttavia resta un figlio di Arcadia.

Si parla di un’altra vita, in questo libro, di utopia, di sogni spezzati, di rapporti tra genitori e figli, dell’infanzia, del come riuscire a vivere in sintonia con il mondo senza distruggerlo, né farsi distruggere, con amore.
Piaciuto tanto, ma tanto. Mi ha lasciato come una nostalgia, uno struggimento del cuore.

Lazzìa