«La compagnia delle anime finte di Wanda Marasco è un valzer senza musica con la vita. Per ballare hai bisogno dei ricordi, dei passi perduti che ti tornano in mente. Rosa guarda. Forse impara.» – Carlo Baroni, Corriere della Sera
Una scrittura poetica quella di Wanda Marasco, popolata in egual misura da vivi e morti, a descrivere una realtà lontana da noi eppure così familiare. Un modo di scrivere elegante e fiero anche quando si descrivono i miasmi della morte e le bassezze di una vita misera. Ma sempre vita è, perciò nulla ci è estraneo.
Mi è piaciuta subito la sua faccia quando ho incontrato la scrittrice alla presentazione dei finalisti del Premio Strega, la faccia di una bella donna, verace, con cui usciresti subito a bere, convinta di poter star bene. E non mi sbagliavo.
Libro di non facile lettura, pesante, viscerale, non è stato di immediata comprensione e, devo ammetterlo, più di una volta sono ricorsa a Google (i napoletani devono perdonarmi) per capire le parole. Ma poi è stato meraviglioso passeggiare sulle scale di Napoli, sognare di passare nei vichi, sui basoli, affacciarsi alle lastre. Come sempre un sogno, Napoli. Meravigliosa, dura, misera eppure così dignitosa.
“Ci sono stata nel sottosuolo della città, da bambina (…) Il maestro Nunziata era uno che aveva voglia di guidarci nelle visite scolastiche. Quella volta andammo negli ipogei dei Cristallini (…) Nunziata stava avanti a tutti, alto, secco, a recitare la grande avventura. Agitava le braccia perché il dramma risultasse alato e delittuoso sopra le nostre teste. (…) Ogni lezione finiva con una fantasia in cui pareva che fino a quel momento avesse mentito su ogni ragionamento. Quando arrivammo ai buchi che lui chiamava stanze, ci disse di non toccare nulla. “Maestro, e ch’avimm’ a tuccá, ‘cca ce sta sulamente póvera!”
“Cerasuò, questa è Storia, hai capito? Storia!”
Rosa parla con la madre Vincenzina, appena morta ma ancora presente e vicina, e ne rivive (tra ricordo, fantasia e visione) la vita, insieme a quella degli altri familiari, dei bambini della scuola e di altre figure miserabili e tragiche del quartiere napoletano di Capodimonte. Per tutti la felicità sognata e forse sfiorata in qualche momento vago e luminoso, si trasforma sempre troppo presto in un fato di pietra, cupo e irremovibile. E’ una Napoli oscura, mai di maniera, in cui tra morti e vivi non c’è nessun confine, perché la stessa energia inesorabile continua a fluire dagli uni agli altri, e nulla mai sembra poter cambiare.
Barbara Facciotto
DESCRIZIONE
Dalla collina di Capodimonte, la «Posillipo povera», Rosa guarda Napoli e parla al corpo di Vincenzina, la madre morta. Le parla per riparare al guasto che le ha unite oltre il legame di sangue e ha marchiato irrimediabilmente la vita di entrambe. Immergendosi «nelle viscere di un purgatorio pubblico e privato», Rosa rivive la storia di sua madre: l’infanzia povera in un’arida campagna alle porte della città; l’incontro, tra le macerie del dopoguerra, con Rafele, il suo futuro padre, erede di un casato recluso nella cupa vastità di un grande appartamento in via Duomo; il prestito a usura praticato nel formicolante intrico dei vicoli, dove il rumore dei mercati e della violenza sembra appartenere a un furore cosmico. È una narrazione di soprusi subìti e inferti, di fragilità e di ferocia. Ed è la messinscena corale di molte altre storie, di «anime finte» che popolano i vicoli e, come attori di un medesimo dramma, entrano sulla ribalta della memoria: Annarella, amica e demone dell’infanzia e dell’adolescenza, Emilia, la ragazzina che «ride a scroscio» e torna un giorno dal bosco con le gambe insanguinate, il maestro Nunziata, utopico e incandescente, Mariomaria, «la creatura che ha dentro di sé una preghiera rovesciata», Iolanda, la sorella «bella e stupetiata»… «Anime finte» che, nelle profondità ipogee di una città millenaria, attendono, come Vincenzina e come la stessa Rosa, una riparazione. Arriverà, sorprendente e inaspettata, nelle pagine finali del libro ad accomunare madre e figlia in un medesimo destino. Dopo l’acclamato Il genio dell’abbandono, Wanda Marasco torna a raccontare Napoli e i segreti della sua commedia umana con un romanzo dalla lingua potente e poetica, cosí materica e allo stesso tempo cosí indomitamente sottile.
Finalista al Premio Strega 2017
Presentato da Paolo Di Stefano e Silvio Perrella
Finalista alla XLIX edizione del Premio Vitaliano Brancati, categoria Narrativa