“Si raccontava spesso quella storia, mentre si addormentava, perdendosi mentre aggiustava insieme i fantasmi del ricordo di qualcuno della cui vera esistenza ormai lei stessa stentava a credere.”
Scritto durante la grande contestazione che a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta sconvolse il mondo, il romanzo ne coglie una sottile ma intensa eco, filtrata attraverso lo sguardo della borghesia urbana statunitense, benestante e colta, rappresentata dai coniugi Bentwood e dai loro amici; una classe abbarbicata ai suoi privilegi, che assiste indolente alle trasformazioni epocali che stanno avvenendo intorno a lei. Il personaggio centrale del romanzo, la quarantenne Sophie Bentwood, conduce a Brooklyn una vita “quietamente” insoddisfacente, intrappolata nelle convenzioni borghesi e nell’ormai esasperato rapporto col marito («Entrambi erano in piedi, rigidi, ciascuno accumulando, quasi inconsciamente, prove contro l’altro»). Giorgia Rovere
Siamo a Brooklyn alla fine degli anni 60. Sophie e Otto vivono la loro tranquilla vita borghese in una bella casa, nella sicurezza ovattata garantita dal denaro e dai privilegi, cercando di tenersi al riparo dalla bruttura e dalla miseria del mondo che li circonda. Questa apparente tranquillità viene scossa nel momento in cui un gatto randagio morsica Sophie ad una mano. Un piccolo fatto insignificante che scatena una serie di pensieri, reazioni e avvenimenti in grado di mettere in discussione non solo il matrimonio di Sophie e Otto ma le basi su cui poggiano le loro stesse vite. Nel corso dei due giorni in cui si svolge la storia, mentre Sophie vive nell’ansia e nell’angoscia (o è speranza?) di sapere se il gatto le abbia trasmesso la rabbia, assistiamo ad una serie di avvenimenti e di riflessioni, alcune meno comprensibili di altre, che ci mostrano quanto fragile e incerto fosse in realtà il dorato mondo dei coniugi Bentwood.
“La vita era stata tenera per così tanto tempo, senza spigoli e soffice, e ora, ecco qui in tutta la sua superficiale banalità e nel suo orrore sommerso questo avvenimento idiota – provocato da lei stessa – questo poco dignitoso confronto con l’essere mortale”.
Al di là della storia in sé, la vera perla di questo romanzo è lo stile dell’autrice. Paula Fox sembra ricamare con le parole, le intreccia, le combina e le lavora come se stesse intrecciando i fili di un merletto. E come in un merletto cattura il lettore in una serie fitta fitta di punti e di nodi, affascinandolo con elaborati ghirigori per poi lasciarlo in sospeso , in bilico ai margini di un foro che potrebbe sembrare un lavoro non finito e che invece si rivela un elaborato gioco di maglie larghe, una finezza ricercata.
Un breve romanzo insolito e interessante. Come dice Jonathan Franzen nell’appassionata prefazione (Franzen è vero cultore di questo libro) “Quello che rimane” si presta a più riletture, perché è un libro in grado di svelare nuove sfumature di sé ad ogni nuova lettura.
Se deciderete di leggere questo romanzo io vi consiglio di lasciare la prefazione a fine lettura. Lo scritto di Franzen è interessantissimo, però svela quasi tutta la storia.
Anna Massimino