La giornata d’uno scrutatore – Italo Calvino #ItaloCavino #Elezioni

«Lo scrutatore arriva alla fine della sua giornata in qualche modo diverso da com’era al mattino; e anch’io, per riuscire a scrivere questo racconto, ho dovuto in qualche modo cambiare. I temi che tocco con La giornata d’uno scrutatore, quello della infelicità di natura, del dolore, la responsabilità della procreazione, non avevo mai osato sfiorarli prima d’ora. Non dico ora d’aver fatto più che sfiorarli; ma già l’ammettere la loro esistenza, il sapere che si deve tenerne conto, cambia molte cose.» (Italo Calvino)

(Ed. Mondadori, pp.140, 2016, orig. Einaudi, I Coralli, 1963)

“Non sapeva cosa avrebbe voluto: capiva solo quant’era distante, lui come tutti, dal vivere come va vissuto quello che cercava di vivere.”

Il romanzo più triste di Calvino. Per me, chiaramente. Perché rappresenta l’impotenza dell’intellettuale ma anche quella del cittadino “normale” di fronte alla realtà, di fronte agli ideali di una vita che, messi di fronte agli atti pratici, al vivere quotidiano e alla sofferenza del singolo, si scollano, si frantumano, si sfaldano e perdono definizione. Terribile ammettere che esistano le sfumature di grigio e che queste non riescano a diradarsi, che l’orizzonte ideale di un sogno, della costruzione di un mondo migliore e più equo, ottenuto grazie alla forza di un collettivo, sia destinato ad infrangersi spesso contro la vita, la politica, contro gli uomini e le donne che si perdono e disperdono in mille rivoli di individualismo e di quotidianità, in un mondo dove sani e malati sono divisi da un confine marcatissimo, a cui l’ideologia non può porre rimedio e dove non si sa più se lottare per costruire un futuro migliore, con un piccolo mattone individuale per volta, valga la pena, quando la massima alle tue spalle recita “non farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che fai potrà servire.” Vale più un massa unita negli intenti oppure la vera forza dell’uomo consiste nel valore della sofferenza del singolo?

Calvino partiva dal voler analizzare il voto consentito ai malati del Cottolengo e invece si ritrova invischiato e sommerso da riflessioni umane e sociali generali e anche particolarissime, sull’uomo, sui rapporti, sull’amore, non è esattamente come nascere incendiari e ritrovarsi pompieri, è solo capire che gli incendi delle infelicità da spegnere e a cui badare sono tanti… e forse l’amore è proprio l’unica risposta credibile, anche se non esaustiva, ai mali del mondo.

«Nel crudele gergo popolare, quel nome era divenuto, per traslato, epiteto derisorio per dire deficiente.»

Musica: Far finta di essere sani, Giorgio Gaber
https://www.youtube.com/watch?v=-cGMRHkv458

Carlo Mars

Ok, lo scrutatore comunista Amerigo sarà un po’inconcludente e con quella voglia un po’ uggiosa di (non) vivere/ (non) morire può lasciare insoddisfatti ma stiamo parlando delle elezioni del 1953, quelle con il 50% + 1 degli eletti che andranno a comporre i due terzi del Parlamento. Impagabile la scena dell’arrivo dei democristiani che passano tra indigenti e non capaci di intendere e volere che si fanno dare il voto con un “segna qua va, che tanto il Cottolengo(lo stabile adibito a luogo di voto) lo hanno costruito i preti”. Calvino si era dissociato dal pci nel 57, ma questa penso sia la cosa più proPCI (o antiDC) che abbia scritto.

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Sempre tornare – Daniele Mencarelli #DanieleMencarelli #Mondadori

Candidato al Premio Europeo della Letteratura 2022.

Daniele Mencarelli ha scritto un romanzo vitale, picaresco e intimo, che ha dentro il sole di un’estate in cammino lungo l’Italia, l’energia impaziente dell’adolescenza e la lingua calibratissima e potente di uno scrittore al massimo della sua forma.

Mencarelli non mi delude mai, anzi da Mencarelli non riesco proprio a staccarmi, me lo porto dentro dopo la lettura, mi sembra di conoscerlo sempre di più. Così come non riuscivo a lasciar andare il Daniele “matto” del Tso di Tutto chiede salvezza o il Daniele alcolista che a sudore e sangue ne viene fuori della Casa degli sguardi, così ho faticato, anche di più, a chiudere questo libro di Daniele giovane, giovanissimo che chiude la sua Trilogia a ritroso nel tempo, con uno scavo narrativo interiore all’origine, all’origine di quella irrequietezza/sensibilità ( il ragazzo senza pareti, senza confini) che lo costituisce nel profondo. Irrequietezza che è insieme tormento e slancio vitale, profonda empatia verso tutto ciò che è umano.

La prima vacanza con gli amici nel tempio del divertimento totale sulla costa romagnola parte male per Daniele (un incidente da poco sarà per lui un vulnus irrecuperabile) così, lasciati d’impeto gli amici,farà dietro front verso casa, in un viaggio slow, sulla strada, senza soldi né documenti.

“Ho 15 giorni di tempo, tanta strada da fare”. In un Italia ferragostana, vuota e caldissima, nella ferrea disciplina dell’autostop, Daniele ci farà incontrare, con la sua empatia quasi maieutica, una galleria di personaggi indimenticabili che, a loro volta, faranno da specchio a Daniele, divideranno con lui cibo e case e, con le case, apriranno le loro solitudini.

Fame, sete, Daniele impara a chiedere e quasi sempre avrà attenzione, cura e confidenze, proprio perché è aperto, ricettivo, senza pregiudizi.

Non mancheranno gli episodi negativi: un incendio (doloso) un incidente mostruoso, una rapina, ma quello che ti rimane dentro è la resistenza al dolore, alla solitudine che anima la maggior parte dei personaggi incontrati.

E poi c’è quest’Italia centrale dei borghi e delle cittadine antiche che ci accoglie in tutta la sua bellezza, mura, ponti, torri, castelli: li vediamo con lo sguardo entusiasta e vitale di Daniele, così come i tramonti, le albe, il caldo torrido o i temporali burrascosi.

E poi c’è quella sua prosa che vira spesso in poesia e poi ritorna prosa, dipinge e descrive e sempre coglie nel segno.

Non mi accontento di un brandello di luce. Io ti dichiaro guerra, vita, io t’incendierò di significato. Oppure come fiamma brucerò verso il cielo.

Pia Drovandi

È l’estate del 1991, Daniele ha diciassette anni e questa è la sua prima vacanza da solo con gli amici. Due settimane lontano da casa, da vivere al massimo tra spiagge, discoteche, alcol e ragazze. Ma c’è qualcosa con cui non ha fatto i conti: se stesso. È sufficiente un piccolo inconveniente nella notte di Ferragosto perché Daniele decida di abbandonare il gruppo e continuare il viaggio a piedi, da solo, dalla Riviera Romagnola in direzione Roma. Libero dalle distrazioni e dalle recite sociali, offrendosi senza difese alla bellezza della natura, che lo riempie di gioia e tormento al tempo stesso, forse riuscirà a comprendere la ragione dell’inquietudine che da sempre lo punge e lo sollecita. In compagnia di una valigia pesante come un blocco di marmo, Daniele si mette in cammino, costretto a vincere la propria timidezza per chiedere aiuto alle persone che incontra lungo il tragitto: qualcosa da mangiare, un posto in cui trascorrere la notte. Troverà chi è logorato dalla solitudine ma ancora capace di slanci, chi si affaccia su un abisso di follia, sconfitti dalla vita, prepotenti