Claudia Durastanti – Cleopatra va in prigione @nellogiovane69 #ClaudiaDurastanti

Un libro sul trovare il modo di andare avanti nel mondo senza farsi sopraffare. Un romanzo che cattura il lettore. 
Loredana Lipperini.
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Caterina racconta ed è raccontata modulando la prima e la terza persona, il presente e il passato, nel flusso di un tempo/città che sembra coagularsi sulla propria stessa ostinata vulnerabilità. Caterina è forte di vita non sbocciata del tutto e di questa stessa forza è fragile, procede sulla falsariga di una sensibilità acuta ma spersa, scollegata, regolando la direzione sulle pulsioni selvatiche di cui è capace, come ogni vita. Attraverso rievocazioni progressive e non lineari la vediamo ragazzina, ballerina e studentessa, prima di interrompere il percorso e perdersi, sospendersi, trovarsi in una sorta di intermittenza senza mai del tutto sentirsi se stessa, slegata, spaesata da tutto, aggrappata a ciò che prova. Caterina si reca in visita dal suo ragazzo Aurelio, carcerato a Rebibbia, come se fosse spinta da un dovere irrinunciabile, malgrado lui l’abbia ferita o forse proprio per questo. La sua prigione è il dovere tutta se stessa a chi sente di dover salvare, è qualcosa che non si può chiamare amore, è il non potersi liberare da questo. Assistiamo così – con un senso di impotenza a tratti intollerabile – al chiudersi della vita su di lei – trentenne – come una palpebra, donna irrisolta nella penombra di un uomo, in una Roma alternativamente livida e struggente.

Claudia Durastanti parte dal germoglio di un racconto pubblicato nell’antologia L’età della febbre e lo fa sbocciare come un romanzo autonomo, con un linguaggio laconico e febbricitante, capace di raggiungere momenti di lirismo in economia, dosando il non detto con efficacia e intrecciando una trama che ramifica nella mappa emotiva e affettiva della protagonista. Si avverte il tentativo di sbilanciare il particolare nel collettivo, di allargare lo sguardo per abbracciare lo stato delle cose, e ci riesce ma senza scadere nel generazionale a gratis. Curioso in questo senso il possibile parallelo tra le pagine – bellissime – del blackout romano e quelle dedicate al blackout newyorkese da Ben Lerner in Nel mondo a venire.
Unico possibile appunto: si sente a tratti il bisogno di un linguaggio ancora più asciutto e – certo – cattivo, per evitare il retrogusto da contro-cartolina della suburbia e soprattutto che l’arrendevolezza della protagonista vada a sfiorare il melodramma. Detto questo, la Durastanti si conferma una delle nostre penne più interessanti, aperte e in crescita.

“(… ) lei in in quei momenti non visualizza niente, ma sente lo sforzo nelle orecchie come un ronzio, il respiro che si comprime, gas cristallizzato e nebuloso nei polmoni, quasi doloroso, una sostanza misurabile e per nulla evanescente come i livelli di ossigeno nei tubi in ospedale – «respira, espira» – di pazienti che stanno per morire – mentre lei è viva ed è per questo che durante quella gita alle catacombe da ragazzina ha rischiato di svenire e di avere le allucinazioni – lei è viva – invece sui binari della metropolitana le sarebbe piaciuto andare avanti al buio, da sola, continuando a esplorare quegli strati sotterranei fino ad arrivare chissà dove, a giacimenti di asfalto e cascate, serragli di piante, caverne di barboni e giungle inesplorate, poi è riemersa e Roma era la solita città impaziente e batterica.”

Stefano Solventi

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