Come prima delle madri – Simona Vinci #simonavinci #recensione

Rimarranno indimenticabili nella memoria del lettore i due adolescenti, Pietro e Irina, che Simona Vinci mette al centro di un vasto universo narrativo, illuminato dall’astro freddo della bellezza di Tea, la madre di Pietro. Quando il ragazzo, all’inizio del romanzo, si risveglia in un collegio circondato da mura, non sa perché è lí. Sa però benissimo che cosa ha perduto. Nella sua mente ci sono immagini di un Eden. C’è appunto Irina, la sua fata compagna di giochi, che corre al suo fianco. Ci sono le donne di casa. C’è Nina, la ragazza selvaggia, strega dei boschi. E c’è Tea, che certo è così cambiata negli ultimi tempi.
Da qualche parte, altrove, ci sono sprazzi di un corpo femminile che non può muoversi, in un luogo misterioso. Arrivano al lettore come messaggi da una creatura sospesa tra la vita e la morte.
In collegio, tra la severità di Padre Janius e l’amicizia con il piccolo Ernesto, dalla cui debolezza Pietro impara a non essere più vittima, il ragazzo comincia una faticosa ma implacabile ricerca della verità. Che cosa è accaduto veramente a Irina? Ma sarà solo dopo l’irruzione della Guerra nel collegio-prigione, tornato dunque a casa, che Pietro potrà cominciare a nominare le cose con il loro nome. E nel nascondiglio privatissimo e magico di Irina, fra le pagine del diario segreto di lei, Pietro scoprirà che la morte della ragazza nasconde un segreto di insostenibile angoscia. È venuto per lui il tempo di scegliere, di decidere.

Scoprire una verità diversa da quella vissuta sui propri genitori può risultare sconvolgente.
Occorre ricollocare se stessi.
Occorre andare avanti sapendo.
E, per quanto sia difficile farlo, Pietro riuscirà a uccidere l’immagine dolce di sua madre che sussurrava all’orecchio parole dolci, e la dovrà sostituire con l’odore di alcool, e scoprire la provenienza dello sguardo gelido che talvolta gli pareva di intravedere.
Strutturato in tre parti temporalmente non lineari, il romanzo si sviluppa con una narrazione psicologica ad incastro perfetti.
Lo stile è semplice ma curato, raffinato e incisivo.
La storia è crudele .
Ma anche la vita, a volte lo è.

Egle Spanò

Mi chiamo Lucy Barton – Elizabeth Strout #recensione #elizabethstrout #lucybarton

Ci sono diverse chiavi di lettura per questo libro di Elizabeth Strout. Lo si può vedere in termini di rapporti conflittuali tra madre e figlia, come pure considerare il romanzo di un amore familiare complesso e contorto. E’ anche una lezione di scrittura dove l’insegnante è uno dei personaggi secondari del libro, una scrittrice di successo, che spiega a Lucy, l’Io narrante, come raccontare una storia. La sua storia, l’unica che le appartiene e che potrà raccontare. E’, anche, un romanzo dalle tante diramazioni dove dal tronco della storia principale partono i rami di brevi storie secondarie in una struttura che ricorda Olive Kitteridge.
Ma quello che si sente in modo particolare in questo libro, per citare la quarta di copertina, è l’assordante rumore del non detto. Il peso di un’infanzia di privazioni e di violenze, il sospetto mai dichiarato di abusi, il ricordo di episodi che la protagonista non saprebbe dire se veri o sognati, persi nella nebbia del tempo e della distanza. Un passato del quale non si parla, al quale non è permesso accennare. Questo gigantesco silenzio è ciò che lega madre e figlia nel breve tempo trascorso insieme dopo anni di lontananza. La madre non perdona alla figlia l’essersi allontanata dalla famiglia trovando rifugio nell’università. Non le perdona aver cercato di diventare diversa, di essersi “allontanata dalla feccia”, di essere diventata migliore. O aver avuto la presunzione di provarci.
Lucy brama inutilmente una parola d’affetto da parte della madre, quel ti voglio bene che la donna non dirà nemmeno sul letto di morte ed è talmente affamata di affetto dall’innamorarsi di ogni singolo gesto gentile di qualsiasi sconosciuto.
Eppure c’è amore tra queste due donne, c’è tenerezza. Elizabeth Strout ci mostra l’una e l’altra in quel suo modo speciale e devastante che ha di raccontarci la sofferenza, senza esprimere giudizi.
Non ho amato Lucy Barton come ho amato Olive Kitteridge, però penso che la Strout ci abbia regalato un’altra magnifica prova di scrittura.

Anna Massimino