Denti bianchi – Zadie Smith #zadiesmith #recensione

Incipit formidabile. Tragedia e commedia mescolate.
Hai scelto un bel posticino per ammazzarti, perchè ti senti solo, fondamentalmente il motivo è questo.
Ma il mondo, paradossalmente, ti sta addosso. Il padrone del negozio di fronte al punto in cui hai scelto di ammazzarti ti ricorda che non è nè il luogo nè il modo giusto per ammazzarti, che stai occupando una parte di suolo dedicato ad altro, non va bene.
Dal momento in cui Archie Smith rimette in moto la macchina, ecco che si mette in moto questo romanzo, e arrivano tanti personaggi e tante storie mescolate, da mal di testa.
Niente Londra da copertina, qui c’è la periferia, qui c’è l’immigrazione vera.
Qui c’è un sacco di sofferenza. C’è gente che sta qui da una vita lavorando, oppure disoccupata, ma soffre, sopporta, abbozza, sopravvive. E c’è una seconda generazione, i figli nati qui, ma estranei anche loro, anche loro sofferenti, anche loro non accettati, non integrati.
Esplode il conflitto tra inglesi e immigrati, esplode il conflitto generazionale.
Difficile vivere stando in equilibrio tra una linea immaginaria ma anche reale tra Oriente e Occidente.
C’è che diventa agnostico. Chi si estranea. Chi si arrabatta. Chi si incazza. Chi rimpiange il Paese di origine, ma allo stesso tempo è attratto dal “peccato” della civiltà moderna. Chi è ateo, e chi fondamentalista. Chi teme un Dio che si vendicherà, chi auspica invece la vendetta purificatrice.
Se ti dicono che puzzi di curry, che rubi il lavoro a chi se lo merita davvero, se rubi i soldi dello Stato che ti ospita, se sai che potrai fare solo certi lavori, ma non altri, se la tua scelta è quella di restare accettando mazzate e compromessi, oppure tornartene al tuo Paese, senza una sola certezza, allora ecco che la vita diventa plumbea.
Ecco che ti spacchi in due, tra l’orgoglio dei tuoi capelli crespi e la voglia di averli lisci e mimetizzarti.
Ecco che alla fine spacchi anche la tua, di famiglia, ecco che non si parla più, non ci si capisce più, non ci si ascolta più.
L’integrazione è possibile, ma è una strada lastricata di pietre acuminate, e cammini scalzo, spesso.
Non è una favola, non è il sogno che spesso ci raccontano. Si deve faticare, e spesso si devono fare delle scelte a caso, lanciando una monetina, testa o croce.
Unico appiglio, l’amicizia. E dare agli altri le stesse possibilità che vorremmo fossero date a noi.

“Ti prego. Fammi un grande favore, Jones. Se senti qualcuno, quando torni a casa – se tu, se io, torneremo alle nostre rispettive case – se senti qualcuno parlare dell’ Oriente non emettere giudizi affrettati. Se ti dicono “sono questo e quello” o “fanno questo” o “queste sono le loro opinioni”, non emettere giudizi affrettati finché non hai in mano tutti i fatti. Perché il paese che chiamano “India” ha mille nomi diversi ed è abitato da milioni di persone, e se pensi di aver trovato due uomini uguali in mezzo a quella moltitudine, allora ti sbagli. E’ stato semplicemente un trucco del chiaro di luna.

E’ un bel casino, sto libro. Scritto nel 2000, Zadie aveva 25 anni, era all’università. Una lucidità e una lungimiranza notevolissime. E anche un bellissimo modo di scrivere. Diretto, pulito, senza sconti.Ti trascina a destra e a manca, ti fa perdere il filo, a tratti ti annoia, si dilunga, si ripete. Eppure è un bel libro. C’è poesia. Niente è perfetto, e il casino è la vita, oggi più di ieri. Un casino tale che, per risolvere la situazione , a volte devi affidarti solo al caso, e forse è il caso che domina tutto.
E forse dovremmo pensare più a quello che ci attende appena svoltiamo l’angolo, invece che restare ancorati a ciò che abbiamo appena superato, cercare radici nel futuro più che nel passato. Forse perdiamo troppo tempo a rivendicare e ricordare qualcosa incarognendosi, invece che a vivere.

«Che esistenza tranquilla. Che gioia dev’essere, la loro vita. Aprono una porta, e dietro ci sono solo un bagno o un soggiorno. Solo spazi neutrali. E non questo interminabile labirinto di stanze presenti e stanze passate e le cose dette dentro quelle stanze dieci anni fa, e la merda storica di ognuno spiaccicata ovunque. Loro non continuano a ripetere regolarmente i vecchi errori. Non ascoltano sempre vecchie puttanate. Non danno pubbliche esibizioni di Angst per i trasporti pubblici. Davvero, quella gente esiste. Ve lo dico io. I più grandi traumi della loro vita sono rappresentati da cose come il cambio della moquette. Il pagamento delle bollette. La riparazione del cancello. Non si preoccupano di ciò che fanno i loro figli nella vita, finché si comportano in modo, sapete, ragionevolmente sano. Felice. E ogni singolo giorno del cazzo non è un’enorme battaglia fra chi sono e chi dovrebbero essere, ciò che erano e ciò che saranno. Avanti, chiedeteglielo. E loro ve lo diranno. Niente moschee. Forse una chiesetta. Praticamente nessun peccato. Un sacco di perdono. Niente soffitte. Niente merda nelle soffitte. Niente scheletri negli armadi. Niente bisnonni. Sono pronta a scommettere subito venti sterline che qui dentro Samad è l’unico a conoscere la maledetta misura interna della gamba del suo bisnonno. E lo sapete perché loro non la conoscono? Perché non gliene frega un cazzo! Per quanto li riguarda, è il passato. E’ così che va nelle altre famiglie. Non vivono ripiegate su se stesse. Non corrono in tondo, godendo, godendo del fatto che sono mentalmente disturbate. Non passano il tempo a tentare di trovare il modo di rendere più complessa la loro vita. Si limitano a viverla. Bastardi fortunati. Figli di puttana fortunati.»

Musica: Morcheeba, Never an easy way

https://www.youtube.com/watch?v=VJfH6ExfmwM

Carlo Mars