Le carte della signorina Puttermesser – Cynthia Ozick #CynthiaOzick #recensione

Ma Puttermesser aveva un’altra teoria: era colpa sua. Era stata troppo sollecita nei confronti della giovane cugina, troppo deferente, troppo coscienziosa, troppo inadeguata e cerimoniosa. Oh, va bene così, non ci pensare. Lascia stare, faccio io. Non ti preoccupare, davvero, va benissimo così com’è. Quelle erano le strofe della litania di Puttermesser. Erano una formula magica, erano “buone maniere”.

Le carte della signorina Puttermesser – Cynthia Ozick

Traduttore: E. Malanga
Collana: Oceani

Cynthia Ozick è una scrittrice ebrea americana molto conosciuta e apprezzata in patria, e pochissimo da noi, infatti i suoi libri, se pur tradotti, sono pressoché introvabili. Questo romanzo, appunto, da noi appena uscito, è in realtà del 1997, e arriva da noi vent’anni dopo. La Ozik è scrittrice di culto, raffinata, strenua sostenitrice della lingua yiddish che ritiene sia stata nel tempo assassinata. Altre sue caratteristiche sono l’umorismo, il trascendente e il ricordo, seppure non struggente, dell’ebraismo dell’Est Europa.
Il suo interesse riguarda spesso l’universo degli ebrei appena arrivati in America.

Puttermesser è il cognome della protagonista; e si avvicina molto al tedesco Muttermesser, che indica il coltello in grado di tagliare solo il burro; una ambivalenza che sta per qualcosa di tagliente, ma che impatta con qualcosa di morbido come il burro, ambivalenza propria della protagonista ed è propria anche della lingua yiddish, dove ogni frase può avere più di un significato.

Incontriamo la signorina Ruth Puttermesser quando ha 34 anni, e la seguiamo fino alla morte alla soglia dei 70, in una biografia scandita in 5 parti. Figlia di un russo emigrato in America quando ancora regnava lo zar, sgobbona a scuola e lettrice accanita, si laurea brillantemente e trova impiego nella municipalità di New York,  dipartimento «Riscossioni e Pignoramenti» dove constata che «l’organismo bastava a se stesso» e «la burocrazia è un mondo feudale e avvizzito fatto di territori, autorità e gerarchie»
Ruth preferisce leggere Platone piuttosto che intrattenersi con Rappaport, un uomo sposato con cui ha una relazione poco entusiasmante.
Vorrebbe tanto avere una figlia, e così, mettendo in atto l’esperienza del rabbino di Praga che nel ‘600 diede vita a un golem, figura che serve a difendere dalle aggressioni, prontamente dà vita al primo golem femmina che la aiuterà a fare la scalata a sindaco della città di New York.
Da qui inizia un mondo fra l’assurdo e il paradossale, con episodi surreali e finemente umoristici, la realtà che diventa metaforicamente, allegoricamente e concretamente un magnifico, assurdo, incredibile avvincente disastro.

Un oceano sterminato di citazioni letterarie, riflessioni esistenziali anche profonde (dalla differenza tra desiderio e brama, al confine tra bene e male, fino alla critica del potere) espresse con leggerezza e grandi dosi di una certa letteratura surreale condita di motti di spirito imprevedibili. Un prontuario per tutti i Puttermesser di questo mondo, avidi studiosi e appassionati lettori, razionalisti e consapevoli del mondo che li circonda, critici fino a diventare caustici, pragmatici ma con dentro di sé gli alti orizzonti dell’ebraismo originario: pronti a infiammarsi per un’aspirazione, un desiderio puro da aspettative, sapendo in fondo già in partenza che se si trasformassse in realtà puntualmente e grottescamente ne verrebbero gabbati loro e i loro stessi aneliti.

Raffaella Giatti

Chiamalo sonno – Henry Roth #recensione #henryroth

Had Gadia, canzone a ricapitolazione nata nell’Est Europa intorno al ‘500, viene cantata dai bambini ebrei alla fine di heder, prima dell’inizio della pasqua ebraica; la musica ha origini medievali. Se ci pare di averla già sentita, è proprio quella, armonia compresa:

“Uccise l’angelo della morte, che aveva ucciso il macellaio, che aveva ucciso il bue, che aveva bevuto l’acqua, che aveva spento il fuoco, che aveva bruciato il bastone, che aveva picchiato il cane, che aveva morso il gatto, che aveva mangiato il capretto, che mio padre aveva comperato per 2 zuzim”

Chi canta questa canzone è David, il protagonista di “Chiamalo sonno“, prima e unica opera di Henry Roth.
David ha 2 anni quando con la madre arriva a New York City per ricongiungersi al padre già emigrato da tempo dall’Austria. Bambino sensibile, molto legato alla madre amorevole e iperprotettiva, mentre il padre è brusco e irascibile, passa l’infanzia fra mille contrasti, di usanze, lingue diverse, adulti che gli risultano incomprensibili. Il romanzo rende bene l’angoscia che a volte alberga nei bambini: David è povero, ha paure ma anche bisogni e angosce spirituali, cerca risposte e forse le trova. Il racconto si chiude quando ha otto anni, è un bambino ancora ma ha già raggiunto la consapevolezza dell’incomprensibile complessità della vita, che solo a volte ci appare chiaramente.
Romanzo complesso e ricco di situazioni svariate, una bellissima descrizione della situazione degli immigrati del primo ‘900.
Un miscuglio di gente, soprattutto europea, dove ognuno cerca di portare il proprio credo, le tradizioni. Tutti cercano lavoro con impegno cercando di farcela, c’è la delinquenza, la solidarietà, ma anche, naturalmente, la prevaricazione e il disinganno.

Non è un romanzo di struttura lineare: a un inizio ancora abbastanza tradizionale, infatti, corrisponde un finale innovativo, in cui la forma narrativa si dissolve sconfinando nella poesia. Libro complesso non tanto per la trama ma per la sovrapposizione di lingue e registri narrativi diversi, descrive magnificamente l’ambiente della New York emigrante dei primi anni del ‘900, a volte è faticoso ma molto bello.
Questo libro di Roth fu un caso letterario: pubblicato nel’34, ebbe enorme successo, ma la critica, che era legata all’idea socialista, gli contestava di non aver perorato la causa e di aver sprecato l’occasione di scrivere di rivoluzione proletaria per rimanere nell’ambito intimistico.
Roth smise di scrivere per quasi sessant’anni, si ritirò con la famiglia nel Maine ad allevare anatre. All’età di 73 anni diede inizio a un’opera narrativa in sei volumi, intitolata Alla mercé di una brutale corrente, due dei quali ebbero pubblicazione definitiva e completa poco prima della sua morte. Altri due volumi furono pubblicati postumi, mentre gli ultimi due manoscritti rimangono non pubblicati in Italia.

Raffaella Giatti