Dallo scudetto ad Auschwitz: La storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo – Matteo Marani #MatteoMarani #ArpadWeisz

Dallo scudetto ad Auschwitz: vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo, di Matteo Marani.

L’ungherese Árpád Weisz, tra i più grandi allenatori degli anni trenta, colui che introdusse per primo gli schemi nel campionato italiano, fu commissario tecnico dell’Inter (dove scoprì Giuseppe Meazza) ma anche del Novara e del Bologna, fino all’espulsione dall’Italia, in seguito alle leggi razziali, e alla tragica fine nel lager di Auschwitz.

Alzi la mano chi si ritrova dei libri in casa e non sa perché. Una volta succedeva al mattino aprendo la porta di casa, di trovare dei libri abbandonati dentro un cestino, teneri trovatelli bisognosi di cure (o almeno è quello che raccontiamo quando qualche familiare ci chiede da dove sbuchino quelle chilate di carta). Adesso a me succede col Kindle, mi ritrovo libri improbabili di autori sconosciuti, che giunti dalle autostrade della rete, si arenano nella memoria misteriosa del device. Un po’ è l’età e molto fanno anche le dita a mazzocchetta che non aiutano la digitazione, lo ammetto, per cui mentre credo di scaricare La Regola del Mantegazza, in realtà sto intasando il Kindle con l’archivio completo del Guerin Sportivo. Insomma, questo libro non so perché fosse là, ma per fortuna che c’era. Arpad Weisz fu un giocatore ed allenatore ungherese a cui il calcio italiano deve molto ma a cui probabilmente non ha riconosciuto nulla. Esponente di spicco della ‘Scuola Danubiana’ in Italia fece vincere uno scudetto all’Inter (ribattezzata Ambrosiana per ovvi motivi fascisti) e due al Bologna. Contro ogni pronostico il suo Bologna riuscì a battere il Chelsea, squadra di spicco del titolato calcio inglese che nei primi decenni del Novecento stravinceva il vincibile. Arpad Weisz inoltre scrisse un trattato sul Calcio che per decenni fu il punto di riferimento per gli allenatori ed i giocatori (quelli in grado di leggere). Il libro, scritto da Matteo Marani, giornalista sportivo e ricercatore, è costruito con una attenzione assoluta alle fonti ed ai documenti. In queste pagine non c’è spazio per descrizioni inventate delle partite che fecero la gloria del Bologna, ma solo una narrazione molto asettica che si ferma al limitare dei documenti esigibili. Marani ha condotto ricerche molto accurate negli archivi e rintracciando i testimoni del periodo, dimostrando inoltre un grande rispetto e sensibilità nei confronti di Weisz, che si rileva nell’equilibrio tra il racconto della vicenda umana e la cronaca sportiva che fa da cornice. L’autore ha il merito di aver riportato alla luce una storia completamente dimenticata, setacciando per anni archivi comunali, scuole, stampa dell’epoca, materiale fotografico e rintracciando testimoni con una tenacia ammirevole.

Il libro è tutto nel titolo: allenatore ebreo, vita e morte, scudetto ed Auschwitz. Quasi una didascalia sotto la figurina dell’album dei calciatori. Le leggi razziali sono ciò mette in opposizione le coppie di parole del titolo. Impossibilitato a lavorare in Italia, costretto ad abbandonare Bologna dove aveva costruito una squadra di successo, approda a Parigi e poi in Olanda, dove allenerà una squadra dilettantistica. Con l’invasione nazista dei Paesi Bassi, resterà bloccato in Europa assieme alla famiglia, per scomparire, grazie anche ai collaborazionisti olandesi, nel campo di sterminio di Auschwitz nel gennaio del 1944.

Luigi Troina

È un libro che commuove e indigna, che va letto tutto d’un fiato. Weisz non lo conosceva bene nemmeno Enzo Biagi, bolognese e tifoso del Bologna. «Mi sembra si chiamasse Weisz, era molto bravo ma anche ebreo e chi sa come è finito», ha scritto in “Novant’anni di emozioni”. Arpad Weistz è finito ad Auschwitz, è morto la mattina del 31 gennaio ’44. Il 5 ottobre del ’42 erano entrati nella camera a gas sua moglie Elena e i suoi figli Roberto e Clara, 12 e 8 anni. A Matteo Marani ci sono voluti tre anni di ricerca, scrupolosa e insieme ossessiva, perché gli pareva di inseguire un fantasma. E ora, giunto alla terza edizione, questo libro si arricchisce di un apparato fotografico.

Editore: DIARKOS Collana: Storie

Anno edizione: 2019 Pagine: 208 p., ill. , Brossura

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Io non mi chiamo Miriam – Majgull Axelsson #recensione

“Potevano fucilarla per il vestito a brandelli… Senza riflettere, se lo tolse in fretta e si chinò su una ragazza stesa sul pavimento del vagone, le sbottonò il vestito e se lo infilò per poi gettare sulla morta il suo tutto strappato… Un triangolo giallo. Ebrea. Ah. Dunque era diventata ebrea e doveva mettersi tra le altre ebree. Una volta arrivata al campo avrebbe sempre potuto inventarsi una spiegazione…”

miriam

Vivere per 70 anni celando la propria identità, e soprattutto se stessi, i propri pensieri, il proprio essere più profondo e vero.
Miriam non è il suo vero nome. Miriam non è ebrea, Miriam è una zingara.
All’ingresso in Auschwitz, per un caso del destino, ha colto l’opportunità di passare da zingara ad ebrea.

“Potrei dire di averlo fatto solo perché desideravo tanto sopravvivere, ma non è vero. In realtà non volevo vivere. Didi, il mio fratellino, era appena morto e Anuscha lo era da tempo. Però volevo essere un cadavere intatto, non volevo morire fucilata o fustigata o uccisa a calci… Non so perché ma era così. Volevo essere un cadavere intatto“.

“Ti dirò, i tedeschi erano abominevoli con quelli che avevano il triangolo giallo, disgustosamente abominevoli, ma le prigioniere, comprese le kapò erano peggio nei confronti degli “zingari”, e in fondo era soprattutto con gli altri prigionieri che si aveva a che fare. Così continuai a essere Miriam”.

Perché l’Olocausto è stato anche questo. Nel mezzo dell’Orrore più grande mai creato dall’uomo, c’era a sua volta un’ulteriore gerarchia. C’è chi ha vissuto un Olocausto ancora peggiore di quello subito dagli ebrei. Gli zingari, i rom. Odiati dai nazisti più degli ebrei, e odiati e scansati da qualsiasi altra etnia, anche gli ebrei detestavano gli zingari. Il 2 agosto del 1944 tutti i Rom e i Sinti ancora vivi a Birkenau, quasi 3000 persone, tra cui tanti bambini, furono bruciati vivi. Morirono uccisi 500.000 zingari, in totale. Prima di morire si batterono eroicamente ad Auschwitz nello stesso ’44, come descritto anche in questo libro. Solo nel 1980, praticamente ieri, la Germania riconobbe l’Olocausto dei Rom.

Miriam/Malika decide di erigere questa diga identitaria per tutta la sua vita.
Perché l’Olocausto non finisce mai. E se sei rom, va anche peggio.
Anche la civilissima Svezia può condannarti solo per le tue origini. Nonostante sia stata fuori dalla Seconda Guerra Mondiale, nonostante la sua civiltà e il suo benessere, negli anni ’40 perseguitò i rom. Nulla conta l’integrazione, l’onestà, nulla. Non finisci mai di essere perseguitato, se nasci nelle parti sbagliate del mondo.
Questo è un romanzo in cui la protagonista è inventata, ma si basa su fatti storici reali, in cui si narra l’Olocausto ma anche quello che è avvenuto dopo. E il dopo non è un piatto dorato con rose e fiori.
Raccontare l’orrore, per un sopravvissuto, è un qualcosa di tremendo. E’ stato talmente enorme che chi ne è uscito vivo teme di non essere creduto. E teme di essere emarginato, di nuovo. E non potrebbe mai sopravvivere ad una nuova esclusione. E quindi tace.
E se sei rom, devi mantenere quel silenzio ancora con più forza e determinazione.

“Sì, certo che era stata costretta! Perché chi sarebbe stata se non avesse mentito? Come avrebbe potuto vivere? Come a Ravensbrück, come ad Auschwitz, con la sola differenza che l’avrebbero cacciata di luogo in luogo, di città in città, di villaggio in villaggio. Non era capace di vivere così. Ma come avrebbe potuto sopportare la menzogna per un’intera lunga vita?”

Miriam crolla solo il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno. Le menzogne crollano, salta la sua copertura, la verità deve venire fuori, anche se sarà solo sua nipote a conoscerla.

Due anni e mezzo di studi su fonti bibliografiche e testimonianze orali, e sulle condizioni dei deportati e sulla cultura rom. Questo ha fatto la Axelsson, e solo grazie a questo enorme studio ha potuto scrivere questo romanzo accuratissimo, sia storicamente che psicologicamente, un romanzo che ti ti tiene avvinghiato alle sue pagine, nonostante il dolore e le sofferenze atroci, descritte benissimo, non riesci mai a distogliere lo sguardo, mai senti il bisogno di una pausa, il ritmo vola alto e tu segui col fiato sospeso tutta la vicenda, come fossi affamato anche tu di verità.

Miriam si chiede il perché abbia lottato tanto per continuare a vivere.
Ecco, leggiamo, e tramandiamo, continuiamo a farlo, diamo noi la risposta a quel perché. Facciamo in modo che la scelta di tanti sopravvissuti di non gettarsi sulle reti elettrificate dei campi di concentramento sia stata una scelta con un senso compiuto.

Non cadiamo nell’errore di giudicare questi fatti come parte del passato, di un passato che mai tornerà. Perchè oggi, in questo momento esatto, milioni di persone stanno bussando alle nostre porte in cerca di aiuto, milioni di persone di razza e religione diversa dalla nostra, e la nostra risposta non è dissimile da quella del mondo di 70 anni fa. Non basta piangere e commuoversi, bisogna fare qualcosa di diverso, bisogna fare di più.

Musica:Rudolf Karel – Symphony No. 4, “Symphonie renaissance” (1921)
https://youtu.be/jvQqvWmDX5I

(Rudolf Karel, nacque il 9.11.1880 a Plzen (Cechia). Dopo gli studi di Legge (1891-1899) studiò all’Università Carlina e al Conservatorio di Praga con Karel Knittl, Josef Klicka, Karel Stecker e Karel Hoffmeister; durante l’ultimo anno di Conservatorio (1904) fu allievo di Antonin Dvoràk. Allo scoppio della 1a Guerra Mondiale, trovandosi in vacanza a Stavropol (Russia) e non potendo rimpatriare, insegnò musica a Taganrog e a Rostov sino al 1917. Sospettato di essere una spia austriaca fu imprigionato ma riuscì ad evadere. Nel 1919 fondò l’Orchestra Sinfonica della Legione Ceca. Tornato in Cecoslovacchia insegnò al Conservatorio di Praga sino al 1941 allorquando le autorità tedesche d’occupazione lo costrinsero ad abbandonare la cattedra. A causa della sua partecipazione alla Resistenza cecoslovacca come membro del gruppo Kvapil-Krofta-Làny fu arrestato nel 1943 dalla Gestapo e incarcerato nella prigione di Pankràc (Praga). Nei 2 anni di prigionia Karel compose numerose opere (tra le quali un Nonet e l’opera I tre capelli del vecchio saggio, completata da Zbynek Vostrak e rappresentata a Praga nel 1948) grazie alla collaborazione di un guardiano che gli forniva fogli di carta igienica incollati tra loro che successivamente nascondeva fuori dal carcere, su cui scriveva grazie a del carbone vegetale, fino a che entrambi furono scoperti. Nel febbraio 1945 fu trasferito nella Piccola Fortezza di Theresienstadt, il campo di concentramento dove morì di dissenteria il 6.3.1945).

Carlo Mars