Zebio Còtal – Guido Cavani

Isbn Edizioni, 2009

“Tirare, tirare sempre, con la frusta alle reni; farsi rodere dalla strada e senza mai arrivare a capire perché, per vivere, si debba sopportare tanta fatica”.

È un contadino apparentemente astuto, violento e cattivo lo Zebio del titolo. Vive a Pazzano, sulle colline modenesi, con la famiglia di sei braccianti, che tiranneggia e maltratta: Zuello, il primogenito fugge di casa, gli muoiono un altro figlio, Bianco, e la moglie, e un terzo figlio, Pellegrino, scompare senza un motivo apparente. Zebio, assillato dai creditori e odiato dal vicinato, fugge nella natura sino a perdersi nel gelo dell’Appennino. “Zebio Còtal” non è una tranche de vie naturalista, è l’apologia di una disperata solitudine contro tutto e tutti, anche a prezzo della vita. Con uno stile magistrale, tanto nella descrizione lirica della natura, quanto nel cogliere il degrado dell’animo, Guido Cavani racconta l’ascesi in bianco e nero di un uomo torvo e spietato, a cui però alla fine il lettore presterà la sua solidarietà.

Lo scorso anno in questo gruppo, ho letto la recensione di Zebio Còtal, purtroppo non mi ricordo più chi l’avesse scritta. Il libro mi ha incuriosita tantissimo. Vuoi perché la recensione era così ben fatta, vuoi perché il lettore è spesso curioso e non vuole perdersi certe perle.

Il libro è stato riedito dopo tanti anni e c’è da dire che ripubblicarlo, secondo me, è stato davvero una scelta intelligente.

Dapprima, nel ’58 è stato autoprodotto, poi Feltrinelli con la direzione di Giorgio Bassani nel ’61 l’ha pubblicato con la prefazione di Pier Paolo Pasolini che ne scriveva:”sono pronto a scommettere che figure come quella di Zebio, della moglie, della figlia e del bambino che muore e certe primavere e certe nevicate sull’Appennino, sono le cose più solide e durature della narrativa contemporanea.”

Un libro che ho sentito vicino, un po’ perché è ambientato in un territorio che conosco bene, un po’ perché nei personaggi descritti ho trovato le stesse caratteristiche di persone reali di cui mi parlavano i miei genitori.

Zebio è un uomo durissimo, sembra che faccia tutt’uno con la terra che lo circonda. Belli e ben definiti anche gli altri. Un libro molto sanguigno.

Grazie a chi ne ha parlato, per me è stata una bella scoperta.

“Il piazzale era ancora deserto; il vento continuava a frustare sibilando le case e gli alberi già nudi. Un cane, di pelo nero, attraversò uggiolando il sagrato, con la coda fra le gambe e le orecchie abbassate; passandogli vicino allungò il muso e lo guardò un istante tremando, con due occhi sofferenti: una folata più violenta delle altre gli arruffò il pelo e lo fece scappare. Zebio afferrò con ambo le mani il cappello per fermarlo e se lo calcò in testa. Tutte le porte erano chiuse, non c’era un’anima viva, il borgo sembrava deserto”.

Raffaella Giatti

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L’Arminuta – Donatella Di Pietrantonio #arminuta #recensione

Una storia e una scrittura potente, intensa come poche altre.
Una storia durissima. Crudele. Un Abruzzo duro, ruvido, di 40 anni fa.
Dove gli adulti sono cupi, brutali, senza affetto, dove si è poveri e tristi, dove portare a casa un pezzo di pane è l’unica cosa che conta, per avere poi la forza di ricominciare tutto al mattino dopo, senza prospettive ulteriori.
Un abisso tra questi sconfitti dalla vita e i loro figli.
Costretti anche loro nella miseria, nella sporcizia, nell’ignoranza e nella fame, ma capaci ancora di amare, di stringersi, di cercare una via di uscita dignitosa.
Come l’Arminuta e come Adriana.
L’Arminuta, la “ritornata”, la storia è la sua. La storia di un abbandono terribile. Cosa c’è di peggio di una ragazzina che perde ogni punto di contatto, che resta sola, e a cui tutti fanno pesare il fatto di essere venuta al mondo?

“La parola mamma si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori.
Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza.
È un vuoto persistente, che conosco ma non supero”.

“La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure”.

Come se lo avessi chiesto tu, di nascere, a qualcuno. Come se fosse una colpa. Come se lo avessi chiesto tu, di avere una famiglia, di avere tutto, e poi di perderlo. Non appartieni più a nessuno. E’ come essere morti in vita.
Prima accudita, curata, amata. Poi abbandonata al tuo destino, alla tua sola capacità interiore di sopravvivere.
La paura, la rabbia, il dolore, l’incapacità di stare bene in una situazione tremenda. Questa scrittrice ci fa percepire tutto. Con parole scarne, dirette. Come se vedessimo un film. Le scene non le immaginiamo, le guardiamo.

Ma, nella disgrazia, nasce questo rapporto meraviglioso, nel freddo della vita c’è questo incontro pieno di calore, e di amore. C’è Adriana, così minuscola ma così forte, così intelligente, così umana, e nasce questa reciproca protezione dagli urti e dalle cattiverie di quella vita. Un esserino che dimostra più forza e maturità di un adulto. Un fiore nato nella miseria, questo rapporto è la parte più bella del libro, a cui non si smette di pensare. Perché rappresenta l’unica speranza di un futuro diverso. Adriana che ti aspetta col broncio, perché ora sei tu quella che rischia di abbandonare qualcuno che dici di amare, Adriana che ti si accoccola accanto, Adriana che ti stringe, Adriana, col suo piede sul tuo viso, la notte, nello stesso letto. L’unico calore umano vero.

L’Arminuta ci insegna a non mollare, a lottare per avere una spiegazione, per avere una ragione, a rivendicare il diritto ad un’esistenza degna di questo nome. Adriana ci insegna la forza della sincerità, dell’istinto, del cuore, la potenza che si possiede quando si ha la forza di essere sempre se stessi. Voglia di abbracciare entrambe, con una commozione sincera.

“..Nella complicità ci siamo salvate.”

Una grande emozione, questo libro.

Musica: Pane e castagne, Francesco De Gregori

Carlo Mars