Mentre morivo – William Faulkner

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“Mi ricordavo di mio padre che diceva sempre che la ragione per cui si viveva era per prepararsi a restare morti per tanto tempo”.

Come si può commentare una frase simile? Il nichilismo totale, nessuna speranza, né affetti, né amore, nulla ci salva dal nostro destino, che è solo quello di vivere in attesa del vero scopo finale, la morte. Devastante Faulkner. Un romanzo dalla trama che tutti hanno definito scarna, per così dire ordinaria, (non concordo) ma complicato, molto complicato. Mette a dura prova la pazienza. Sarà che fa un caldo mortale, ma le finestre spalancate di casa mi hanno invogliato diverse volte a prendere il libro e tentare un gran lancio da quarterback. Lo stile è arduo, almeno per me è stato denso di ostacoli. Ma è pregno di significati, scandaglia la condizione umana, la solitudine, l’egoismo, la miseria da cui saremmo pervasi.
Faulkner sceglie non la narrazione da Deus ex machina, bensì quella del flusso di coscienza, 59 capitoli narrati separatamente da tutti i personaggi, a rotazione. Tutto il romanzo si incentra sull’imminente morte di questa donna, Addie, e sul viaggio che il marito Anse e i cinque figli dovranno intraprendere per portarla da questa sconosciuta contea del Mississippi a Jefferson, il luogo che Addie aveva scelto per la sua sepoltura. Su di un carro che si regge in piedi per miracolo, in condizioni avverse, con la stessa famiglia che si regge per miracolo. Un corteo funebre non solo perché trasporta la salma di Addie, ma soprattutto perché richiama il fallimento e la pochezza di tutti i partecipanti, delle loro vite tristi, insoddisfatte, egoiste, rabbiose, folli. L’espediente narrativo di volerci mostrare la storia da diversi punti di vista alla fine ci mostra che la storia è solo una, il dramma è uno solo, la fine è una sola. Tutti preoccupati e tesi solo al denaro, all’interesse personale, nessuno ama questa donna, questa moglie e questa madre, non l’hanno amata in vita, non l’amano mentre la guardano morire, non l’ameranno di certo mentre la conducono alla sepoltura, durante una specie di tempesta. E’ solo un impiccio, la vita insieme, e anche la morte, lo diventa, è solo un obbligo da espletare più per “la gente” che per convinzione intima. Cash, un figlio maniacale, che costruisce la bara per la madre con la madre ancora viva, madre che osserva il lavoro per controllare che sia fatto bene….ci sembra di sentirla, quella sega, per tutta la parte iniziale del romanzo, è quel rumore che segna il tempo…Darl, il figlio uscito dalla guerra, visionario, folle, pazzo, non voluto e non amato dalla madre e da tutti, ma la sua è una lucida follia, è quello che meglio vede le cose, infatti Faulkner gli dà voce per 19 capitoli su 59 totali… Jewel, l’unico amato, quello nato da un amore extraconiugale, che si spacca la schiena per comprarsi un cavallo, che sembra la sua unica passione..Dewey Dell, l’apparenza verginale che nasconde la gravidanza: “Sento il mio corpo, le ossa e la carne che cominciano a dividersi e a aprirsi sull’esser sola, e il processo di diventare non-sola è terribile”, incredibile descrizione di una gravidanza… e Vardaman, il piccolo della famiglia, il bambino che vive il dolore a suo modo, quello per cui la madre diventa un pesce, perché lui si sente nato da un mero rapporto fisico, animale, e basta…quello che pensa che la madre di Jewel sia un cavallo, simbolo della passione infuocata e basta, e che pensa che Darl non abbia affatto una madre, perché non è mai stato amato e voluto..e, nello stesso tempo, coltiva il sogno bambinesco di un trenino da comprare al ritorno, e che è capace di riflessioni così, ancora: “Il pianto fa un sacco di rumore. Vorrei che non facesse tanto rumore”…e poi c’è Anse, il capofamiglia, ottuso come nessun altro al mondo, che ama con un suo modo ottuso quanto lui, che accompagna la moglie per questo ultimo viaggio mettendo a rischio tutta la famiglia, ma non per amore, solo per obbligo contratto con la società che osserva, attonita, questa disgraziata famiglia, assurda famiglia….il capitolo che porta il nome di Addie, che ci fa leggere i suoi pensieri, è il più potente, a livello negativo, e il più veritiero, almeno dal punto di vista dello scrittore. Una madre che ha sempre odiato marito e figli, ed ha passato la vita a tentare di mascherare questo odio, sfogandolo in un privatissimo modo: “Il pomeriggio quando la scuola era finita e anche l’ultimo se ne era andato tirando su col nasino sporco, invece di tornarmene a casa scendevo giù alla sorgente dove potevo starmene in silenzio a odiarli”.
Tremendo.

“Così mi presi Anse. E quando mi resi conto di avere Cash, mi resi conto che vivere era terribile e che quella era la risposta. Fu allora che capii che le parole non servono a nulla; che le parole non corrispondono mai neanche a quello che tentano di dire. Quando nacque mi resi conto che maternità era stata inventata da qualcuno che doveva trovarle una parola perché a chi i bambini li ha avuti non gli importava nulla se c’era una parola o no. Mi resi conto che paura era stata inventata da qualcuno che non aveva mai avuto paura; orgoglio, da qualcuno che di orgoglio non ne aveva mai avuto… Anche lui aveva una parola. Amore, lo chiamava. Ma era da un pezzo che avevo fatto l’abitudine alle parole. Sapevo benissimo che quella parola era come tutte le altre: semplicemente una forma per riempire un vuoto; che quando fosse venuto il momento, non ci sarebbe stato bisogno di una parola, per quello, più che per l’orgoglio o per la paura.”
Terribile.

Darl, il figlio non amato, non voluto, il folle, il pazzo. Ma Cash, il fratello, riflette così, su di lui: “Certe volte non sono tanto sicuro di chi ha il diritto di dire quando uno è pazzo e quando no. Certe volte penso che nessuno di noi è del tutto pazzo e nessuno è del tutto normale finché il resto della gente lo convince a andare in un senso o nell’altro. È come se non fosse tanto quello che uno fa, ma com’è che lo guarda la maggioranza di noi quando lo fa. Ma non sono poi così tanto sicuro che uno abbia il diritto di dire che cos’è pazzo o che cosa non lo è. È come se dentro a ognuno ci fosse qualcuno che è al di là dell’esser normale o dell’esser pazzo, e le cose normali e le cose pazze che fa le guarda con lo stesso orrore e lo stesso stupore”. Darl, che si mette in viaggio cosciente dell’inutilità del tutto, l’unico a farlo, l’unico a ridere di questa vita assurda.

Un libro composto da tante voci, che arrivano ad un coro di desolazione e devastazioni totali. Non c’è salvezza per nessuno, riscatto per nessuno, gioia per nessuno. Sono tutti condannati alla propria esistenza miserevole. Due sole persone lo comprendono e se ne tirano fuori, una scegliendo la morte, l’altra optando per una lucida follia.
Anticipatore di Sartre, Camus, Beckett, amato da Bukowski…queste sono cose troppo letterarie e tecniche, per me. Io dico solo: mettetevi alla prova.

Musica: Mogwai – Take Me Somewhere Nice
https://youtu.be/luM6oeCM7Yw

carlo mars

Cassandra al matrimonio – Dorothy Baker @FaziEditore

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Quando l’ho acquistato, ormai non ricordo nemmeno quando (giaceva in libreria da mesi, credo), non sapevo nulla nè dell’autrice, nè del contenuto. Non so perchè, credevo fosse cosa di oggi, contemporanea a tutti gli effetti, non credevo che l’autrice fosse defunta nel 1968. E che il libro fosse del 1962. E che trattasse di una storia ambientata un secolo fa, circa. Ingannevole la copertina, ingannevole anche il titolo, che mi faceva pensare a una storia tutta romantica.
E, leggendolo, quell’impressione iniziale di contemporaneità si è, come dire, rafforzata. Perchè a me è sembrata una storia senza tempo. Il linguaggio usato, è senza tempo, e di sicuro non appare datato. Sembra scritto adesso, stamattina. E’ veramente una cosa che mi ha colpito.
Casa Edwards, la classica famiglia americana all’apparenza impeccabile. Al di sopra delle umane e povere vicende umane. Non dico perfezione assoluta, ma sicuramente tendente a considerarsi migliore di ogni altra esperienza. Un padre filosofo/progressista, che educa con liberalità e intelligenza le due figlie, un ambiente sano, costruttivo, fecondo. Ma sappiamo bene che quasi mai l’ostentata sicurezza della perfezione sia effettivamente tale, nella realtà. Sappiamo bene che scheletri e armadi e paure e lacrime represse siano in ogni famiglia. Lo diceva anche Tolstoj, mi pare.
Due gemelle monozigote, la loro storia, 11 minuti di differenza alla loro nascita, per il resto simbiosi assoluta. Cassandra vede la luce del mondo prima di Judith, e forse per questo si prende carico della sorella e del suo destino, anche senza che alcuno glielo abbia richiesto. Le due sorelle sono fuse in un’unica entità, vivono insieme, non concepiscono altro modo di vivere. Ed è proprio la famiglia, il primo problema, quello sprezzante chiudersi in se stessi, considerandosi inimitabili, più in alto del mondo. Poi, improvvisamente, Judith intravede la felicità in modo diverso, conosce l’amore, e decide di spezzare quel cordone che sa anche di incestuoso, in qualche modo, con la sorella, e anche di volerlo conoscere, quel mondo che la famiglia ha sempre tenuto fuori. Prima frequentando una scuola diversa, poi con l’annuncio del suo imminente matrimonio.
E questo annuncio provoca il disastro. Due persone che prima si comprendevano con un solo sguardo, come due sposi perfetti, oggi non si capiscono più, oggi una vede l’altra con una lente deformata. E per Cassandra la separazione è un lutto, un dolore immenso, insopportabile. Un oltraggio inspiegabile, dal suo punto di vista. Chiede alla sorella, in pratica, il perchè abbia solo potuto pensare di rompere un’unione che forse lo stesso Dio, voleva indissolubile. Siamo due persone, ma solo biologicamente, in realtà siamo una sola che il destino ha voluto dividere in due.
«Avremmo dovuto essere un’unica persona» . E prova a distruggere i piani della sorella.
Cassandra non trova il suo posto nel mondo. In questo senso credo che chi legga si trovi attratto dal suo personaggio, pur riconoscendone limiti e follie. Ma siamo uniti anche a Judith, nella sua disperata volontà di far quadrare ogni cerchio, nel disperato tentativo di far felici tutti, di non scontentare alcuno. Il libro è diviso in tre parti, due con la voce di Cassandra, una con la voce di Judith. Una scelta che ho trovato molto azzeccata.
Un finale che lascia aperta ogni soluzione, perchè la vita è questa, alle volte per rinascere bisogna morire, per far partire una vita nuova bisogna dar fuoco alla vecchia: “Nella vita, per ricominciare, non c’è niente di meglio di una fine”. Anche se non sappiamo se basterà, quella fine, per ripartire davvero.
Un romanzo che sia per la prosa che per il contenuto tiene col fiato sospeso, affascina totalmente,la Baker taglia come una lama, col suo modo di scrivere, è una meraviglia il contrasto tra l’apparente leggerezza della narrazione e la perfezione dello scandagliare l’animo umano, fin nel suo abisso. Non riesco davvero ad immaginare come l’abbiano presa, i lettori del 1962…L’ho letto rapidamente e avidamente, nemmeno noiosi e chiassosi bagnanti sono riusciti a distogliermi dalla lettura. Un libro per me bellissimo.

Musica: The Space Between, Dave Matthews Band

Carlo Mars

DESCRIZIONE:
«Cassandra al matrimonio, magistrale romanzo di Dorothy Baker, mi ha scioccato nel vero senso della parola: mi ha sbalordito, lasciato interdetto, senza fiato, con la mente sollecitata dalle piccole scosse elettriche che provoca quasi a ogni pagina questo libro appassionante». (Peter Cameron, dalla postfazione al romanzo).

Un romanzo commovente sulla famiglia, sui conflitti e le tenerezze che sempre accompagnano i nostri rapporti. Un romanzo scritto nel 1962 che non smette di raccogliere pareri entusiastici per la modernità con cui descrive i personaggi femminili.

Cassandra Edwards ha ventiquattro anni, è una studentessa laureata a Berkeley: è brillante, ma un po’ nevrotica e triste. All’inizio del romanzo la troviamo al volante della sua macchina mentre sta tornando a casa, il ranch di famiglia alle pendici della Sierra, per partecipare al matrimonio della sua gemella, Judith, con un giovane medico del Connecticut. Matrimonio che Cassandra è determinata a sabotare. La commedia agrodolce di Dorothy Baker segue un inaspettato corso di eventi nei quali la sua eroina si mostra, in momenti diversi, subdola, consapevole, ridicola, concitata, assurda e disperata – allo stesso tempo totalmente impossibile, e irresistibile.
Il weekend che Cassandra trascorre nella casa paterna diventa un momento di crescita, una riflessione su quanto la famiglia sia lo specchio più evidente della natura poco soddisfacente dell’essere umano. La prima cosa che apprendiamo è che il sé è qualcosa di parziale. Forse possiamo essere consapevoli di un unico aspetto davvero comune a tutti: l’incompiutezza.