Figlio di Dio – Cormac McCarthy #recensione #CormacMcCarthy

“Non sapeva nuotare, ma chi sarebbe riuscito mai ad annegarlo? Sembrava che la rabbia lo tenesse a galla. Come se l’ordine naturale delle cose venisse meno. Guardatelo. Indubbiamente sono altri uomini, uomini come voi, a sostenerlo. Ha popolato la sponda di uomini che lo chiamano. Una razza che alleva gli storpi e i folli, che vuole nella propria storia il sangue infetto di queste creature, e lo avrà. Ma quello che vogliono adesso è la vita di quest’uomo. Lui li ha sentiti cercarlo nella notte con lanterne e grida di esecrazione. Com’è possibile allora che resista? Perchè le acque del torrente non lo prendono?”

Lester Ballard è un uomo dal passato difficile, un contadino del sud degli Stati Uniti d’America, una terra dove le leggi sono regolate da istinti primari di sopravvivenza e dalle forze della natura.

Oppresso dalla miseria umana e dalla solitudine, Ballard si ribella. E lo fa uccidendo donne e poi stuprandole. La certezza che non possa accedere ad un corpo femminile se non cadavere, e la certezza di non avere nulla da perdere, lo conduce a compiere atti violenti e ignobili, non troppo distanti da atti compiuti da altre persone che vengono però “accettati “dal vicinato, perché compiuti all’interno di una gestione familiare. Ballard non ha una famiglia, non ha amici. E nemmeno una casa. Vive per sopravvivere.

Ballard sembra vivere al di fuori del concetto di male e bene: sembra compiere queste crudeltà, solo perché gli capitano. In effetti, proprio perché non conosce il bene, non sa cosa sia il male.

Vive oltre il confine della socialità, tra una bestialità feroce e un candore fanciullesco, rivendicando il diritto a esistere attraverso azioni che non considerano gli altri come essere umani.

La vita degli altri, come la propria, non vale nulla, e in quel nulla lui esiste. Riesce, però, a cogliere attimi che sono trapassati da una grazia fuggevole come il vento che muove le spighe di grano. E sono proprio questi attimi che inducono nel lettore una sorta di compassione per lui.

“Aveva deciso di continuare il suo viaggio perché tornare indietro non poteva, e quel giorno il mondo era bello come lo era stato tutti i giorni fin dal principio, e lui viaggiava verso la morte. Forse percepivano un allentarsi dell’oscurità che il viaggiatore, invece, non poteva ancora cogliere, benché continuasse a guardare verso Oriente. Forse una nuova freschezza dell’aria. In ogni punto della terra addormentata i galli lanciavano i loro richiami e si rispondevano l’un l’altro. Oggi come nei tempi andati. Qui come in altri Paesi”.

Ancora una volta Mc Carthy ci dice che il male esiste ed è in ognuno di noi. In un mondo in cui non esiste il domani, dove non esiste affetto, amore, e c’è solo solitudine, in un mondo in cui non rimane che la condizione sostanziale di tutti gli uomini, rimangono solo anime “scoperte” e prive di illusioni o speranze.

Un amico mi ha chiesto perché continuassi a leggere i libri di Cormac Mc Carthy. Pur riconoscendogli una gran abilità linguistica e letteraria non ama la crudezza e la violenza rappresentata in molti di essi.

E la risposta è in una frase del libro.

“Pensate che a quei tempi la gente fosse più cattiva di oggi?” – chiese il vicesceriffo.

“No” –disse – “Non lo penso .

Penso che la gente sia la stessa fin dal giorno che Dio creò il primo uomo”.

E io non voglio dimenticarlo.

Egle Spanò

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Badlands – Alessandro Portelli #AlessandroPortelli #Badlands #BruceSpringsteen

PORTELLI

“Bruce Springsteen non è Woody Guthrie, non è Bob Dylan, non è Hank Williams, non è neanche Elvis Presley. E’ qualcosa di più complicato di tutti e quattro: è quello che porta le domande di Hank Williams, gli orizzonti di Woody Guthrie, la poetica di Bob Dylan dentro il mondo di Elvis. Hank, Woody, Dylan, Elvis […] sono le voci più alte della tradizione musicale americana, ciascuno simbolo di un genere, di un linguaggio: country, folk song, rock and roll, rock, blues, rhythm and blues, gospel. Bruce Sprinsgteen se ne appropria, li assorbe, e li cambia tutti.”

La frase di lancio sulla fascetta recita: “Il libro più bello che i fan del Boss potessero aspettarsi”. E come contraddirla. Non si può. Perché quando a scrivere certe parole è quel maestro di dialettica del Portelli che ti parla come se si stesse facendo una chiacchierata informale, condita però di riferimenti culturali ad ampio spettro, beh … non puoi far altro che assaporare pagina dopo pagina e godere. Godere di quelle associazioni, canticchiarti i versi riportati all’interno del discorso e sviscerarli uno ad uno, confrontandone la tua personalissima traduzione e ampliandone infine l’interpretazione.
Dire che un testo del genere apra nuove prospettive è riduttivo.
Il sottotitolo ci prova a delimitare il campo, ma sono molte di più le tematiche che fanno capolino all’interno del saggio; sì, il lavoro, la working class, le acciaierie, le raffinerie, i soprusi, la disoccupazione e l’alienazione di un impiego che ti svuota l’anima. Sì, il sogno americano, la promised land, le aspettative deluse, la corsa, il viaggio, la strada. E dove lasciamo la guerra, i reduci, la maternità (non so quante volte viene nominata la Janey di Spare parts e il suo bambino portato al fiume) e la paternità, le differenze razziali e perché no religiose (superbo l’ultimo capitolo sulle influenze cattoliche nell’opera springsteeniana!)? Tutto converge e tutto va ad amalgamarsi nel più grande topic “Springsteen e l’America”. Perché sì, lui è il cantore di tutto questo e molto più.
E se Springsteen e Portelli stesso hanno imparato molto più da tre minuti di canzone che da tanti libri, beh è qui che è giunta invece la mia epifania e la mia personalissima illuminazione, perché “la passione, il lasciarsi andare, l’affidamento, la comunione dei fedeli, la vibrazione spirituale verso qualcosa di invisibile e immateriale, la speranza nell’amore – non le cerchiamo tanto in un’entità ultraterrena ma le troviamo in noi stessi grazie alla musica più mondana, sensuale, sfrontata e più sacra di tutte.”
Io appartengo a quello spazio immateriale fatto di confronto, apertura, riflessione, emozione, liberazione, fisicità, sudore, lacrime e fatica. Questo è il MIO sogno, quello in cui sentirmi viva e pulsante e dove ho compreso e appreso molto più di me stessa che da ore e ore di reiterato ascolto musicale.
So, dream, baby, dream and … come on, we gotta keep on dreaming!

Owlina F.