Sonderkommando Auschwitz – Shlomo Venezia #olocausto #sonderkommando

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« Altre volte mi hanno chiesto, per esempio, se qualcuno sia mai rimasto vivo nella camera a gas. Era difficilissimo, eppure una volta è rimasta una persona viva. Era una bambina di circa due mesi. All’improvviso, dopo che hanno aperto la porta e messo in funzione i ventilatori per togliere l’odore tremendo del gas e di tutte quelle persone – perché quella morte era molto sofferta – uno di quelli che estraeva i cadaveri ha detto: “Ho sentito un rumore”. Normalmente quando uno muore, dopo un po’ finché non si assesta, il corpo ha dentro dell’aria e fa qualche rumore. Abbiamo detto: “Questo poverino, in mezzo a tutti questi morti, comincia a perdere il lume della ragione”. Dopo una decina di minuti ha sentito di nuovo. Abbiamo detto: “Tutti fermi, non vi muovete”, ma non abbiamo sentito niente e abbiamo continuato a lavorare. Quando ha sentito di nuovo, ho detto: “Possibile che senta solo lui? Allora fermiamoci un po’ di più e vediamo cosa succede”. Infatti, abbiamo sentito quasi tutti un vagito da lontano. Allora uno di noi sale sui corpi per arrivare laddove veniva il rumore e si ferma dove si sente più forte. Va vicino e, insomma, là c’era la mamma che stava allattando questa bambina. La mamma era morta e la bambina era attaccata al seno della mamma. Finché riusciva a succhiare stava tranquilla. Quando non è arrivato più niente si è messa a piangere – si sa che i bambini piangono quando hanno fame. La bambina era quindi viva e noi l’abbiamo presa e portata fuori, ma ormai era condannata. C’era l’SS tutto contento: “Portatela, portatela”. Come un cacciatore, era contento di poter prendere il suo fucile ad aria compressa, uno sparo alla bocca e la bambina ha fatto la fine della mamma. Questo è successo una volta in quella camera a gas. Ci sono tanti racconti, ma io non racconto mai cose che hanno visto gli altri e non io. »

Da un’ intervista a Shlomo Venezia, lessi il suo libro tempo fa,anzi, più precisamente il suo resoconto.Lo consiglio : […] “Scesi dal treno davanti a tutti perché volevo aiutare mia madre, ma un soldato mi ha colpito alla testa con un manganello. A calci mi ha messo in fila con altre persone. Non ho mai più rivisto mia madre e le mie sorelle”.
Lo scrittore, passata la selezione prima di entrare nel campo (“Dei 1.500 scesi dal treno, sono stati selezionati 220 ragazzi e 110 ragazze. Gli altri mandati subito a morire”), fu tatuato e mandato a lavorare (“Ci vennero a prendere dicendo che serviva qualche pezzo. Avevamo smesso di essere persone, eravamo pezzi da lavoro”). Fece il barbiere nel famoso Sonderkommando: il suo compito era tagliare i capelli ai morti nelle camere a gas, da cui poi si facevano tessuti e moquette per i sommergibili.
Solo in un secondo momento scoprì che la squadre del Sonderkommando dovevano essere periodicamente eliminate per mantenere il segreto sulle atrocità a cui assistevano. Prima che accadesse a lui, dopo 8 mesi, il 17 gennaio 1945 è trasferito al campo di concentramento di Mauthausen ed è liberato ad Ebensee i primi di maggio dagli americani
Fra i più importanti testimoni del dramma della Shoah, l’unico sopravissuto del Sonderkommando che testimonia pubblicamente, ha raccolto le sue memorie nel libro “Sonderkommando Auschwitz”.

Michela Ferrarini

Io non mi chiamo Miriam – Majgull Axelsson #recensione

“Potevano fucilarla per il vestito a brandelli… Senza riflettere, se lo tolse in fretta e si chinò su una ragazza stesa sul pavimento del vagone, le sbottonò il vestito e se lo infilò per poi gettare sulla morta il suo tutto strappato… Un triangolo giallo. Ebrea. Ah. Dunque era diventata ebrea e doveva mettersi tra le altre ebree. Una volta arrivata al campo avrebbe sempre potuto inventarsi una spiegazione…”

miriam

Vivere per 70 anni celando la propria identità, e soprattutto se stessi, i propri pensieri, il proprio essere più profondo e vero.
Miriam non è il suo vero nome. Miriam non è ebrea, Miriam è una zingara.
All’ingresso in Auschwitz, per un caso del destino, ha colto l’opportunità di passare da zingara ad ebrea.

“Potrei dire di averlo fatto solo perché desideravo tanto sopravvivere, ma non è vero. In realtà non volevo vivere. Didi, il mio fratellino, era appena morto e Anuscha lo era da tempo. Però volevo essere un cadavere intatto, non volevo morire fucilata o fustigata o uccisa a calci… Non so perché ma era così. Volevo essere un cadavere intatto“.

“Ti dirò, i tedeschi erano abominevoli con quelli che avevano il triangolo giallo, disgustosamente abominevoli, ma le prigioniere, comprese le kapò erano peggio nei confronti degli “zingari”, e in fondo era soprattutto con gli altri prigionieri che si aveva a che fare. Così continuai a essere Miriam”.

Perché l’Olocausto è stato anche questo. Nel mezzo dell’Orrore più grande mai creato dall’uomo, c’era a sua volta un’ulteriore gerarchia. C’è chi ha vissuto un Olocausto ancora peggiore di quello subito dagli ebrei. Gli zingari, i rom. Odiati dai nazisti più degli ebrei, e odiati e scansati da qualsiasi altra etnia, anche gli ebrei detestavano gli zingari. Il 2 agosto del 1944 tutti i Rom e i Sinti ancora vivi a Birkenau, quasi 3000 persone, tra cui tanti bambini, furono bruciati vivi. Morirono uccisi 500.000 zingari, in totale. Prima di morire si batterono eroicamente ad Auschwitz nello stesso ’44, come descritto anche in questo libro. Solo nel 1980, praticamente ieri, la Germania riconobbe l’Olocausto dei Rom.

Miriam/Malika decide di erigere questa diga identitaria per tutta la sua vita.
Perché l’Olocausto non finisce mai. E se sei rom, va anche peggio.
Anche la civilissima Svezia può condannarti solo per le tue origini. Nonostante sia stata fuori dalla Seconda Guerra Mondiale, nonostante la sua civiltà e il suo benessere, negli anni ’40 perseguitò i rom. Nulla conta l’integrazione, l’onestà, nulla. Non finisci mai di essere perseguitato, se nasci nelle parti sbagliate del mondo.
Questo è un romanzo in cui la protagonista è inventata, ma si basa su fatti storici reali, in cui si narra l’Olocausto ma anche quello che è avvenuto dopo. E il dopo non è un piatto dorato con rose e fiori.
Raccontare l’orrore, per un sopravvissuto, è un qualcosa di tremendo. E’ stato talmente enorme che chi ne è uscito vivo teme di non essere creduto. E teme di essere emarginato, di nuovo. E non potrebbe mai sopravvivere ad una nuova esclusione. E quindi tace.
E se sei rom, devi mantenere quel silenzio ancora con più forza e determinazione.

“Sì, certo che era stata costretta! Perché chi sarebbe stata se non avesse mentito? Come avrebbe potuto vivere? Come a Ravensbrück, come ad Auschwitz, con la sola differenza che l’avrebbero cacciata di luogo in luogo, di città in città, di villaggio in villaggio. Non era capace di vivere così. Ma come avrebbe potuto sopportare la menzogna per un’intera lunga vita?”

Miriam crolla solo il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno. Le menzogne crollano, salta la sua copertura, la verità deve venire fuori, anche se sarà solo sua nipote a conoscerla.

Due anni e mezzo di studi su fonti bibliografiche e testimonianze orali, e sulle condizioni dei deportati e sulla cultura rom. Questo ha fatto la Axelsson, e solo grazie a questo enorme studio ha potuto scrivere questo romanzo accuratissimo, sia storicamente che psicologicamente, un romanzo che ti ti tiene avvinghiato alle sue pagine, nonostante il dolore e le sofferenze atroci, descritte benissimo, non riesci mai a distogliere lo sguardo, mai senti il bisogno di una pausa, il ritmo vola alto e tu segui col fiato sospeso tutta la vicenda, come fossi affamato anche tu di verità.

Miriam si chiede il perché abbia lottato tanto per continuare a vivere.
Ecco, leggiamo, e tramandiamo, continuiamo a farlo, diamo noi la risposta a quel perché. Facciamo in modo che la scelta di tanti sopravvissuti di non gettarsi sulle reti elettrificate dei campi di concentramento sia stata una scelta con un senso compiuto.

Non cadiamo nell’errore di giudicare questi fatti come parte del passato, di un passato che mai tornerà. Perchè oggi, in questo momento esatto, milioni di persone stanno bussando alle nostre porte in cerca di aiuto, milioni di persone di razza e religione diversa dalla nostra, e la nostra risposta non è dissimile da quella del mondo di 70 anni fa. Non basta piangere e commuoversi, bisogna fare qualcosa di diverso, bisogna fare di più.

Musica:Rudolf Karel – Symphony No. 4, “Symphonie renaissance” (1921)
https://youtu.be/jvQqvWmDX5I

(Rudolf Karel, nacque il 9.11.1880 a Plzen (Cechia). Dopo gli studi di Legge (1891-1899) studiò all’Università Carlina e al Conservatorio di Praga con Karel Knittl, Josef Klicka, Karel Stecker e Karel Hoffmeister; durante l’ultimo anno di Conservatorio (1904) fu allievo di Antonin Dvoràk. Allo scoppio della 1a Guerra Mondiale, trovandosi in vacanza a Stavropol (Russia) e non potendo rimpatriare, insegnò musica a Taganrog e a Rostov sino al 1917. Sospettato di essere una spia austriaca fu imprigionato ma riuscì ad evadere. Nel 1919 fondò l’Orchestra Sinfonica della Legione Ceca. Tornato in Cecoslovacchia insegnò al Conservatorio di Praga sino al 1941 allorquando le autorità tedesche d’occupazione lo costrinsero ad abbandonare la cattedra. A causa della sua partecipazione alla Resistenza cecoslovacca come membro del gruppo Kvapil-Krofta-Làny fu arrestato nel 1943 dalla Gestapo e incarcerato nella prigione di Pankràc (Praga). Nei 2 anni di prigionia Karel compose numerose opere (tra le quali un Nonet e l’opera I tre capelli del vecchio saggio, completata da Zbynek Vostrak e rappresentata a Praga nel 1948) grazie alla collaborazione di un guardiano che gli forniva fogli di carta igienica incollati tra loro che successivamente nascondeva fuori dal carcere, su cui scriveva grazie a del carbone vegetale, fino a che entrambi furono scoperti. Nel febbraio 1945 fu trasferito nella Piccola Fortezza di Theresienstadt, il campo di concentramento dove morì di dissenteria il 6.3.1945).

Carlo Mars