Tretrecinque – Ivano Fossati #IvanoFossati

Le feste si surriscaldano solo dopo mezzanotte, è così dappertutto. E accidenti se è vero. Io li osservavo quegli assatanati e non potevo credere ai miei occhi per come ci davano dentro a bere e a ballare.”

Distaccato e sveglio, divertente e un po’ cinico, sempre su di giri, Vittorio Vicenti – o Vic Vincent, come lo chiamano in America – è uno che si butta, nella vita e con le donne. “Tretrecinque” è la sua storia, cosí come ce la racconta lui: gli anni scintillanti e quelli piú scriteriati e difficili. L’esistenza avventurosa, e ordinaria, di un italiano che resta tale anche quando viene scagliato lontano nel mondo. Dall’età della scuola, nel Piemonte degli anni Cinquanta, agli Stati Uniti del XXI secolo. Quella di Vittorio Vicenti è un’esistenza segnata da un formidabile talento musicale e da una chitarra elettrica, la Gibson tretrecinque, di cui diventa, forse suo malgrado, un virtuoso. È la tretrecinque a strapazzarlo di città in città, di decennio in decennio, e lui è il tipo d’uomo che lascia succedere le cose. Che vive ai margini dei luoghi che contano, condannato alla provincia ovunque si trovi. Che non transita nel tempo perfetto in cui gli eventi memorabili accadono. La sua è una corsa senza respiro che non concede neanche un attimo per voltarsi indietro.

Il primo romanzo di fossati contiene a mio avviso parecchi elementi se non autobiografici, comunque figli della sua carriera musicale
nella vita di Vic Vincent, che conosciamo ragazzino e salutiamo ultrasessantenne, passano affetti, avventure, dolori, esperienze, crescita e Storia, con la S maiuscola dei grandi fatti, tipo l’11 settembre.
Tutto però a ritmo di musica, la musica che cambia e si evolve come il protagonista.
Dalla balera alle feste per latinos, Vic e la sua inseparabile 335, che non è un prefisso telefonico ma è il modello di una mitica Gibson, quella suonata tra altri da B.B. King ed Eric Clapton, chitarra grazie alla quale lui trova un posto nel mondo, vivono più vite in una.
La passione per lo strumento passatagli da Giulin, personaggio meraviglioso che forse meritava ulteriore spazio e che possiamo ritrovare in certe canzoni di van de sfroos; l’amore da Andreina ad Anette alla moglie Helen; gli amici Toni e Gaetano, le peripezie, le serate avvolte da sostanze più o meno lecite (più meno che più).
E le riflessioni dolci-amare sul tempo che passa e sulla vita, caratteristiche che seppur con termini e prospettive diverse fossati ha sempre inserito nei suoi dischi.
400 pagine abbondanti che si leggono piacevolmente e che lasciano alla fine la sensazione di aver conosciuto davvero un tipo come Vic, chissà forse solo sfiorandolo oppure da sotto un palco o forse nei racconti mitici di qualche “zio d’America”, se ancora esistono.
Impostato come una lettera al nipote, il libro lascia in eredità un graditissimo elenco (dubito che Vic e/o Fossati userebbero il termine playlist) di canzoni che raccontano la storia di questa “vita imperfetta”.

“A quelli che vanno nel mondo senza paura degli anni e della distanza”.

Ottimo esordio.

Il Cala (Alberto Calandriello)

La storia di un matrimonio – Andrew Sean Greer #AndrewSeanGreer #Adelphi

La storia di un matrimonio – Andrew Sean Greer

Traduttore: G. Oneto
Editore: Adelphi
Collana: Fabula

*Un libro su un periodo storico di cui sai poco ( guerra di Corea)

“Se è alla vostra portata scegliete l’estasi; se appena potete, scegliete l’amore”.

Che cosa unisce due vite? “Non so che cosa unisca le parti dell’atomo, ma a legare gli esseri umani sembra sia il dolore”. Sotto la prua della nave del matrimonio c’è quello che lo fa andare avanti sulle acque degli eventi e che non si vede. Come si fa a spiegare un matrimonio, tutta una vita? Andrew Sean Greer ci riesce, tende la mano e colpisce nel segno. Poche frasi incisive scandiscono il ritmo poetico dell’azione: vanno dritte al cuore delle cose e si imprimono a fondo nella mente del lettore. In parte il merito va alla traduttrice e al suono evocativo delle parole che ha scelto di usare per l’inglese dell’autore, ma resta una cosa davvero imprevedibile come faccia Greer a vivere tutte queste vite, essere Pearlie, Holland e Buzz: ci vorrebbero molto più decenni di quelli che ha vissuto per poter conoscere così bene non una ma tre di queste vite, con tutti gli incredibili giri che si susseguono e deflagrano le aspettative del lettore.
Le vicende descritte nel romanzo si svolgono in gran parte a San Francisco nel 1953, nel periodo finale della guerra di Corea. Holland e Pearlie si rincontrano dopo la guerra sulle coste del Pacifico a San Francisco. Decidono di ricominciare la vita da dove l’avevano lascata anche se la guerra ha ferito la loro età dell’innocenza: comprano una casa sull’oceano, adottano un cane e fanno un figlio. Sembra l’inizio dell’idillio post bellico finché uno sconosciuto dal passato di Holland bussa alla porta una sera portando dei regali e insinuandosi nelle loro vite. Troppi colpi di scena che rovinerei descrivendoli, mai scontati e mai semplici come potrebbero sembrare.
Greer dischiude momenti che si dilatano nell’eternità, così come Proust fece a suo tempo: infiniti mondi che si dischiudono dalle nostre scelte e, ad ogni biforcazione, l’inaspettata astuzia dell’impensabile con cui l’autore scansa le direzioni che hanno preso i nostri pensieri per consegnarci a ciò che nessun altro sarebbe in grado di raccontarci, ciò che è sotto gli occhi di tutti ma che nessuno esaurisce dal suo punto di vista, la storia di un matrimonio. Molto bella la descrizione storica, della percezione di una certa fase della storia americana, e interessante conoscere alcune “verità” della guerra fatta dagli americani.

“L’oggetto del nostro amore esiste soltanto per frammenti, una decina se la storia è appena cominciata, un migliaio se lo abbiamo sposato, e con questi frammenti il nostro cuore fabbrica una persona intera. Ciò che creiamo, supplendo le lacune con l’immaginazione, è l’uomo che vorremmo. E meno lo conosciamo più lo amiamo ovviamente. Ecco perché ricordiamo sempre con tanta felicità la prima sera insieme, quando lui era un estraneo, e quella felicità tornerà solo dopo che sarà morto.
Crediamo tutti di conoscere la persona che amiamo e anche se non dovremmo stupirci quando scopriamo che non è vero ci si spezza il cuore lo stesso, è la scoperta più difficile non tanto sull’altro quanto su noi stessi, vedere che la nostra vita è una nostra invenzione; l’abbiamo scritta noi, e ci abbiamo creduto. Silenzio e bugie. La sensazione che ho provato quella sera è stata di tremenda solitudine.”

Stefano Lilliu

“Crediamo tutti di conoscere le persone che amiamo”: così Pearlie Cook comincia a raccontarci gli incredibili sei mesi che sono stati, per il suo matrimonio, una sorta di inesorabile lastra ai raggi X. Siamo nel 1953, in un quartiere appartato e nebbioso di ex militari ai margini di San Francisco, e tutto nella vita dei Cook parla ancora della guerra: la salute cagionevole di Holland, i ricordi tormentati di lei, le loro abitudini morigerate e un po’ grigie. Una vita per il resto normalissima, come sottolinea la voce ammaliante di Pearlie – mentre la sua testa scoppia di pensieri che forse, via via che si disvelano, preferiremmo non ascoltare. Eppure li leggiamo con avidità, rassicurati dal fatto che lei, palesemente, ha intenzione di dirci proprio tutto. Perché, allora, ci sentiamo invadere da un’ansia arcana, da un senso di vertigine e di smarrimento, come davanti a certe atmosfere torve di Edgar Allan Poe? Non solo per il susseguirsi di colpi di scena che ci avvincono a ogni riga sino a condurci all’unico finale davvero imprevedibile.