Il Respiro nel Buio – Nicolaj Lilin

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«Io ero una minaccia per la gente, minacciavo l’assoluto delle loro coscienze, la sacralità delle loro vite. Io conoscevo da vicino l’oggetto delle loro più grandi paure. Credevo di aver abbandonato la guerra, e invece la guerra ero io».

E con questo, ho chiuso la Trilogia Siberiana. Bel libro, ma secondo me gli manca qualcosa. Manca l’epopea sovrabbondante del primo o i passaggi tirati e mozzafiato del secondo. Qui la narrazione è per certi versi più distesa, come uno scioglimento per poi riprenderti per il collo verso la fine. Lilin l’ha giocata più su un lento crescendo piuttosto che sputarti in faccia tutto come ha fatto coi primi due. Il primo libro era una coltellata (anzi, una “piccata”), il secondo una raffica di Kalashnikov, il terzo è un fucile di precisione maneggiato da un cecchino paziente. Ma a volte, proprio il senso di attesa può annoiare. Poi però preme il grilletto…
In tutti e tre comunque, resta intatta la poesia scabra e ruvida del suo stile e questo è un bene.

Alex G.

DESCRIZIONE

Il respiro del buio comincia con un viaggio, alcune centinaia di chilometri che sanciscono l’ingresso in una nuova vita. Il servizio militare in Cecenia è finito, è tempo di tornare, ma per Nicolai la parola ritorno ha perso significato. È un altro uomo quello che scende dal treno, e anche la città che lo accoglie ha ormai rinunciato alla propria identità per inchinarsi ai miti d’Occidente. Rinchiuso nel suo appartamento, circondato dalle armi importate illegalmente dalla Cecenia, Nicolai attraversa un «dopoguerra» privatissimo e feroce: all’indifferenza muta che gli riserva il suo Paese, non trova altra risposta che l’odio. Odia gli edifici, le strade, l’umanità «pacifica» che gli appare fasulla, intollerabile nella sua pretesa di civiltà.
Per provare a fare i conti con le atrocità subite e commesse, decide d’intraprendere un nuovo viaggio, verso il luogo che rappresenta l’unico ritorno possibile: la Siberia. In questa terra che sa essere per lui spietata e materna, guidato da un nonno che vive in perfetto equilibrio tra asprezza e incantato stupore, Nicolai sembra ritrovare il desiderio di una vita comune. Ma non basta certo il silenzio a cancellare un passato così ingombrante, e neppure serve la determinazione, perché quella che si offre come una possibilità di riscatto può rivelarsi in ogni momento una trappola che inverte la corsa e riporta al punto di partenza.
Così può succedere che un impiego in un’agenzia di sicurezza privata a San Pietroburgo si trasformi in una nuova guerra, più nascosta e apparentemente meno violenta rispetto a quella combattuta in divisa, eppure, se possibile, ancora più pericolosa. Una guerra che fa le sue vittime nelle strade delle grandi città, ma che si combatte soprattutto nelle stanze lussuose della nuova élite economica, nei rapporti tra oligarchi e politici corrotti, negli archivi segreti ereditati dal KGB.
Tra complotti e tradimenti, attentati e amori impossibili, violenze atroci e sorprendenti accensioni ironiche, Nicolai Lilin ci regala quello che tra i suoi romanzi, forse, più lo rappresenta. Perché le storie dei suoi personaggi – storie accadute all’autore stesso o viste accadere ad altri, ascoltate o soltanto immaginate – non sono che varianti possibili di un identico destino: quello di chi, per fuggire dal vuoto, non ha avuto altra scelta che lanciarsi nel buio.

 

 

Caduta Libera – Nikolai Lilin

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Il secondo libro della Trilogia Siberiana di Lilin mi è piaciuto molto. Un po’ meno di “Educazione Siberiana”: secondo me ha esagerato con le scene di flashback o “didascaliche” incastrate nei momenti più tirati, che nelle pagine di “Caduta Libera” abbondano, molto più che nel libro precedente. L’intenzione magari era quella di rendere le scene d’azione meno pesanti e più di respiro, ma a volte spezzano un po’ troppo.

Comunque, la storia l’ho gradita lo stesso, così come mi piace il suo stile secco, diretto e senza fronzoli.
A prescindere da quello che si può dire dell’autore stesso (che, per esempio, abbia ricamato un po’ troppo sugli eventi definiti autobiografici), lo consiglio.

alex grigio

DESCRIZIONE

la guerra cecena come specchio di ogni guerra contemporanea.
Questo è il racconto di chi l’ha combattuta facendo il cecchino in un gruppo d’assalto.
Un libro che ti appare, prima, spietato e terribile, poi semplicemente vero. Perché ti mostra come l’uomo possa essere condotto oltre l’uomo, in un inferno molto terreno dove non esistono né il bene né il male.

Chi ha scritto queste pagine, raccontando ciò che ha vissuto, non è un cecchino. Ma ha fatto il cecchino per due anni di servizio militare in un gruppo d’assalto dell’esercito russo durante la Seconda campagna cecena. Non sempre si è ciò che si fa. L’uomo dovrebbe essere più di ciò che fa. Ma ciò che fai può essere così orribile da cambiare ciò che sei: un uomo.
La guerra che in queste pagine vedi – perché l’equipaggiamento simbolico di Lilin è soprattutto visivo, come quello della gran parte di noi – non ha orizzonti, né ideologie, né complesse visioni del mondo. Tutto è ravvicinato come attraverso il cannocchiale di un fucile di precisione. Ma è proprio tale assenza di prospettiva a rendere queste pagine terribili più grandi degli eventi che raccontano. Così, la guerra che vedi non è solo quella cecena, ma è la guerra come la si combatte oggi in ogni parte del mondo. Quella senza politica, senza dichiarazioni ufficiali, senza il teatro dei media. Ma con tutta la tecnologia disponibile. E ogni tecnologia – se togli l’uomo come accade in guerra, se togli non solo la pietà ma anche l’etica – si riduce a strumento bellico.
Il gruppo di sabotatori raccontato da Lilin con un aurorale talento di narratore non si trova su un fronte, ma nel caos dell’azione in prima linea o dietro le linee nemiche. Gli uomini sono per lo più arruolati contro la propria volontà e combattono per la propria sopravvivenza contro il nemico e contro i traffici del proprio Comando. Fra le case, nei cortili, sul fianco di una collina, nelle fogne o all’interno di una moschea.
I nemici sono semplicemente gli «arabi» – come vengono chiamati senza distinzioni e in un assurdo guazzabuglio «ceceni, musulmani, afghani, talebani, terroristi o combattenti di qualunque fede politica» – che bisogna annientare senza pietà ma soprattutto senza esitare, pena la vita. L’unica lealtà possibile è quella primitiva verso il compagno nel gruppo assediato dal mondo di fuori. Si uccide con armi ad alto potenziale o di precisione, ma anche con il pugnale o con una pistola appoggiata alla nuca. E il corpo del nemico fatto a pezzi diventa manichino. Chi lo guarda, per poter sparare meglio si è appena trasformato in una pietra senza respiro e senza vita e ora posa su di esso uno sguardo estetico. E tu capisci che l’uomo non c’è più. Provi orrore quando Lilin non confessa, ma semplicemente dice di aver provato piacere a uccidere, la «gioia» dell’assassino addirittura, ma ti rendi conto di essere di fronte a un frammento di verità.
Ogni guerra, qualsiasi guerra se la vedi senza i filtri dei princìpi o delle ideologie, è come questa. Ed è così per le vittime come per i carnefici. Porta l’uomo oltre l’uomo, sì, al di là del bene e del male. Tutto il resto è letteratura.