Aleksandar Hemon – Il progetto Lazarus

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E’ colpa mia, lo so perfettamente. Sto periodo incredibilmente fatico a perdermi nelle pagine e se a ciò aggiungiamo che il cartaccio alla sera mi ammazza definitivamente, ecco che il giudizio non potrà che essere ottuso dalle condizioni fisico-ambientali. Imperciocchè , dove il precedente “Libro delle mie vite” mi aveva folgorato, questo non ci è riuscito. La storia dell’aspirante scrittore Brik, bosniaco immigrato nella terra promessa, che vorrebbe raccontare la storia di Lazarus, ebreo sopravvisuto ai pogrom e a sua volta immigrato a Chicago, che nel 1908 viene ucciso dal capo della polizia semplicemente perché è “diverso” e quindi minaccioso, spaventoso.
Tutto avrebbe potuto far scattare l’ammore verso questo tomo e invece, invece no. Mi sa che questo per me può essere solo il tempo per libri farlocchi, libri carini e leggeri.

“Qualcuno spia da dietro una tenda della casa di fronte, il volto cinereo contro lo sfondo scuro. E’ una giovane donna: lui le sorride e lei si affretta a tirare la tenda. Tutte le vite che potrei vivere, tutte le persone che non conoscerò mai, che mai sarò, sono ovunque. Il mondo è tutto questo.”

Aleksandar Hemon – Il progetto Lazarus

Alexandar Hemon – Il libro delle mie vite

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Sono stata molto indecisa se parlarvi di questo libro perchè credo che nessuna riflessione, sia pure partecipata e profondamente sentita, possa trovare le parole per dire ciò che mi ha smosso questa prosa sobria, limpida, priva di fronzoli.

Ho deciso comunque di provarci.

Hemon, nato a Sarajevo nel ’64, negli USA per un corso di studi, decide, nel maggio ’92, di non tornare in patria e chiedere asilo. Ci racconta della sua infanzia e adolescenza in Bosnia, di come si trovi per caso a Chicago quando la guerra arriva nella città natale, della sua decisione di rimanere negli U.S.A.; ci racconta episodi, cibi, sensazioni, partite di calcio, feste, amori, partite di scacchi, sradicamento. In brevi racconti ci narra la sua vita, le sue vite, e nell’ultimo, devastante capitolo, la morte.

A Chicago, solo, lontano dai suoi cari, dai luoghi in cui aveva acquisito la sua individualità, cammina, cammina, alla disperata ricerca di ciò che gli aveva dato Sarajevo, una geografia dell’anima.
“il tuo senso di quello che eri, la tua identità profonda erano determinati dalla tua posizione all’interno di una rete umana il cui corollario fisico era l’architettura della città.”
Ci spiegano nitidamente, le sue pagine, cosa significhi essere “straniero”, la fatica che occorre per imparare, di nuovo, a collocarsi nel mondo, a reinventarsi una mappa di senso, a ricostruire, mattone dopo mattone, la propria metaforica casa, ad individuare, come un naufrago che cerca una sponda, una luce, una terraferma, un’ancora, punti di riferimento che lo trattengano dalla deriva dello straniamento.
Uno sforzo quotidiano e certosino volto a ricreare la propria, personale infrastruttura del cuore.
Finché dopo anni, “Mi accorsi che il mio immigrato interiore aveva iniziato a fondersi con l’americano esteriore. Ampie parti di Chicago erano penetrate in me e lì si erano insediate, e quelle parti adesso le possedevo appieno. Vedevo Chicago attraverso gli occhi di Sarajevo e le due città ormai creavano un complesso paesaggio privato da dove potevano nascere le storie. Quando tornai dalla mia prima visita a Sarajevo, nella primavera del 1997, la Chicago cui feci ritorno mi apparteneva. Di ritorno da casa, tornavo a casa.”
Ed ecco il commovente, incantevole capitolo “Ragioni per cui non lascerei Chicago: un elenco incompleto e senz’ordine”, nel quale c’è una luce speciale, il freddo, la spiaggia, un campetto da basket, il colore del lago quando il vento soffia da nord, tutti i piccoli, intimi motivi che ci fanno amare un posto del mondo e ci permettono di chiamarlo casa.

Poi pagine che mi riportano in quei territori della memoria abitati da vergogna e senso di colpa, dove mentre di qua si viveva abitudinari, metodici, le nostre solite crisi politiche, i nostri momenti grati e ingrati, di là dal mare i cecchini sparavano, le granate esplodevano, in un mercato, in una fila per il pane, per l’acqua.
(Una di quelle vicende della Storia che più torturano, ancora oggi, la mia coscienza, pur avendola vissuta con accorata e smaniosa partecipazione, con rabbia e sgomento ma anche con la frustrante consapevolezza della mia impotenza e inutilità).

Ancora un episodio che mi ha toccato il cuore: nel dicembre ’93, i genitori, la sorella e il cane Mek arrivano in Canada ed Alexandar si precipita ad incontrarli: “Mek mi corse incontro scodinzolando, felice di vedermi. Ero stupefatto che si ricordasse di me dopo quasi 3 anni. Credevo che ampie parti di ciò che ero a Sarajevo fossero svanite ma, quando Mek mi posò la testa in grembo, qualcosa di me stesso fece ritorno”.

Mi fermo qui. Non vi parlerò dell’ultimo capitolo. Non riesco, non posso. Solo chi ha l’ha vissuto può raccontare con le proprie parole, provare a dire l’indicibile, perchè “proprio ciò che lascia senza parole deve essere raccontato”.

Colonna sonora dell’autore: Patti Smith, Talking Heads, Led Zeppelin, Charlie Mingus.

Lazzìa