Italo Calvino, Le Cosmicomiche

Ci pensavo giorno e notte; anzi, non potevo pensare ad altro; ossia, era quella la prima occasione che avevo di pensare qualcosa; o meglio, pensare qualcosa non era mai stato possibile, primo perché mancavano le cose da pensare, e secondo perché mancavano i segni per pensarle, ma dal momento che c’era quel segno, ne veniva la possibilità che chi pensasse, pensasse un segno, e quindi quello lì, nel senso che il segno era la cosa che si poteva pensare e anche il segno della cosa pensata cioè di se stesso. Dunque la situazione era questa: il segno serviva a segnare un punto, ma nello stesso tempo segnava che lì c’era un segno, cosa ancora più importante perché di punti ce n’erano tanti mentre di segni c’era solo quello, e nello stesso tempo il segno era il mio segno, il segno di me, perché era l’unico segno che io avessi mai fatto e io ero l’unico che avesse mai fatto segni. Era come un nome, il nome di quel punto, e anche il mio nome che io avevo segnato su quel punto, insomma era l’unico nome disponibile per tutto ciò che richiedeva un nome.

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Libro piuttosto complesso, questo di Calvino. Ne avevo letto qualcosa ai tempi della scuola ma ora, dopo averlo letto tutto, sono piuttosto convinto che ne avessi letto veramente pochi brani.
In centoquaranta pagine e un dozzina di racconti, Calvino ci racconta di biologia e fisica a modo suo con capitoli divertenti ma anche molti, forse troppi, folli capitoli da mal di testa di cui l’estratto qui sopra è un esempio: per chi non avesse letto Le Cosmicomiche, sappiate che qui ci sono racconti di una decina di pagine praticamente scritti per intero come questo brano.
L’ho utilizzato come lettura per il mio naneronzolo ma è stata una lettura sbagliata, troppo complessa per goderne appieno in distratte letture ad alta voce.

Massimo Arena

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